Come racconta nel suo libro la giornalista Liz Pelly sulle piattaforme esistono artisti e tracce fantasma, creati appositamente con società esterne. È la pratica del Perfect Fit Content (Pfc) che serve ad abbassare i costi e massimizzare i profitti truccando le playlist che ascoltiamo
Di hauntologia e altri spettri musicali se ne è scritto tanto, doveva arrivare il tempo delle playlist di artisti fantasmi. Ghost Music, dentro lo schema di artisti falsi di Spotify, titola la copertina del nuovo numero di Harper’s Magazine. Tra le pagine della rivista americana si può leggere un estratto del libro della giornalista Liz Pelly, che a lungo ha lavorato a un’inchiesta su Spotify e le sue pratiche per minimizzare i costi delle playlist.
Il libro Mood Machine: The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist è uscito negli Stati Uniti a inizio gennaio e potrebbe rivelarsi una potenziale scossa tellurica per l’azienda di servizi di streaming musicale, già criticata da diversi artisti per le scarse percentuali che corrisponde ai musicisti.
Le tracce fantasma
Di artisti falsi su Spotify se ne parlava da un po’ di tempo. Liz Pelly ha cominciato la sua indagine grazie a soffiate più o meno casuali, segnalazioni di proprietari di etichette discografiche indipendenti che si dicevano preoccupati del futuro della musica e da certe pratiche nascoste. Le pagine pubblicate in anteprima da Harper’s con il titolo The Ghosts in the Machine approfondiscono il fenomeno di artisti e tracce fantasma che popolano le playlist, brani musicali creati appositamente da Spotify in collaborazione con società esterne come la Epidemic Sound.
La pratica del Perfect Fit Content (Pfc) servirebbe ad abbassare i costi e massimizzare i profitti truccando le playlist che ascoltiamo. In questo schema perverso le cose funzionano più o meno così: se mettiamo una playlist di musica ambient non è detto che le tracce siano tutte opera di artisti e musicisti autentici, potrebbero esserci tracce prodotte a basso costo, artisti assoldati da Spotify per suonare il tipo di musica che finirà in una certa playlist, e così all’infinito in un sistema che rischia di far perdere il senso di cosa è veramente autentico.
La musica per il sottofondo delle nostre giornate suona maestosa per un mondo inautentico. In un’epoca in cui ci avviamo verso i generatori di musica con intelligenza artificiale, l’indagine di Liz Pelly si fa ancora più inquietante.
La giornalista ha raccontato di avere parlato con numerosi musicisti ed ex dipendenti, di avere esaminato i registri interni di Spotify e letto messaggi aziendali su Slack. Ha incontrato editor di playlist e musicisti jazz che per arrotondare hanno contribuito a realizzare brani anonimi per le playlist. Se all’inizio Pelly dubitava che Spotify fosse capace di usare stratagemmi tanto ingannevoli, con il tempo ha accumulato abbastanza informazioni per mettere insieme un libro.
Secondo Pelly si tratta di un processo che sta accelerando una progressiva svalutazione della musica: sostituendo artisti jazz, ambient, shoegaze o lo-fi, con la musica prodotta a basso costo, Spotify non solo abbassa le royalty per i musicisti, ma va contro la stessa industria musicale che dice di sostenere.
Il caso di Röhr
Da parte sua Spotify e il Ceo Daniel Ek hanno sempre negato di utilizzare questa pratica per abbassare i costi. «Non abbiamo mai creato artisti falsi», da tempo la posizione dell’azienda è questa. I portavoce di Spotify preferiscono non commentare gli accordi con gli artisti che contribuiscono alle playlist.
Il caso di Johan Röhr, uno sconosciuto compositore che ha pubblicato musica con centinaia di nomi diversi diventando l’artista svedese più ascoltato di Spotify, potrebbe annoverarsi tra le storie di artisti fantasma che fanno parte del nuovo corso del nostro tempo declinato in streaming.
Del resto, uno degli obiettivi dell’azienda Spotify è mantenere il più possibile il nostro tempo in ascolto: le playlist rilassanti o scacciapensieri aiutano a conquistare l’ascoltatore che sta studiando o che sta lavorando o che sta cucinando o che sta vagando in giro a piedi. È difficile che in ogni momento l’ascoltatore sia presente a sé stesso o si accorga di tracce e artisti fantasma.
Ci sono momenti in cui la musica va solitariamente avanti e l’ascoltatore semplicemente dimentica: in questi momenti i fantasmi si moltiplicano. Johan Röhr potrebbe creare centinaia di tracce di repertorio da iniettare nelle nostre orecchie, e con l’Ia che ci osserva dallo spioncino della porta, la musica in streaming sembra promettere l’eterna ripetizione di sonorità e generi.
Più avanziamo nel futuro più sarà complesso separare la realtà dal suo falso. È l’epoca della post-verità, e così come le immagini e i frammenti video prodotti dall’intelligenza artificiale diventano più sofisticati e realistici, un giorno potremo arrivare a chiederci se sia il vero Neil Young a suonare in cassa o un’addestrata ignota creatura artificiale. La buona notizia è che non tutta la musica viaggia tramite le playlist fantasma. Possiamo ancora ascoltare un disco autentico, creare le nostre playlist, i nostri rifugi.
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