Quando dico che insegno e scrivo di razionalità umanità le persone non sono incuriosite dalle categorie della ragione, come la logica e la probabilità, né dalle scoperte classiche della psicologia su come le persone le ignorino. Vogliono sapere perché l’umanità sembra avere perso il senno. 

Perché la gente crede a stravaganti teorie del complotto, come quella secondo cui il Covid-19 sarebbe stato un piano di Bill Gates per impiantare microchip tracciabili nei nostri corpi? O a palesi fake news, come quella per cui Joe Biden avrebbe definito i sostenitori di Trump «feccia della società«? O al paranormale, come all’astrologia, alla percezione extrasensoriale (Esp) e all’energia spirituale nelle piramidi e nei cristalli?

Non servirà rispondere spockianamente che gli umani sono irrazionali. I nostri antenati cacciatori e raccoglitori vivevano del loro ingegno, superando in astuzia gli animali con trappole, veleni e agguati, proteggendosi dagli elementi con fuoco, indumenti e ripari.

È stato questo ingegno che ha permesso all’umanità, secondo la definizione di Ambrose Bierce, di «invadere l’intera terra abitabile e il Canada».

Da allora la nostra specie ha scandagliato la natura della materia, della vita e della mente, si è liberata dai tenaci vincoli della terra per esplorare altri pianeti e ha placato i flagelli della guerra, della pestilenza e della carestia, duplicando la nostra aspettativa di vita.

Anche le imprese quotidiane di mantenere un lavoro, conservare il cibo in frigorifero e vestire, nutrire i bambini e portarli a scuola in orario richiedono abilità di ragionamento che vanno oltre le capacità della nostra migliore intelligenza artificiale.

Come si spiega dunque questa pandemia delle fesserie? Il miglior modo in cui posso rispondere è in quattro punti.

La natura della ragione

Il primo è radicato nella natura stessa della razionalità. La ragione, quasi per definizione, è un’inferenza declinata a servizio di un obiettivo: nessuno ottiene un credito di razionalità semplicemente per aver enumerato proposizioni vere ma inutili.

L’obiettivo tuttavia non deve essere una comprensione oggettiva del mondo. Può anche essere prevalere in una discussione per raggiungere un obiettivo importante soggettivamente.

Come ha osservato Upton Sinclair: «È difficile far capire una cosa a qualcuno quando il suo stipendio dipende dal fatto che non la capisca».

Oppure la ragione può essere usata per mostrare quanto sia saggio e morale il proprio gruppo – religione, tribù, setta politica – e quanto sia stupido e malvagio quello rivale.

Questo «pregiudizio personale», come spiega Keith Stanovich nel suo The Bias That Divides Us, sembra essere il pregiudizio più pervasivo tra i centinaia documentati dalla scienza cognitiva e dalla psicologia sociale. E dietro a questo si cela una razionalità perversa.

È tutt’altro che irrazionale che un individuo abbracci una convinzione che gli conferisce uno status di eroe dalla propria parte e gli evita l’ostracismo come traditore. Il problema è che è irrazionale che una società nel suo insieme oscilli tra i dogmi di una fazione e quelli di un’altra invece di arrivare collettivamente a comprendere la realtà il più accuratamente possibile.

Questi incentivi contrastanti ci mettono in una tragedia dei beni comuni della razionalità.

Saggezza popolare

Un secondo fattore che contribuisce all’irrazionalità è che la ragione umana è guidata da intuizioni popolari fortemente radicate, il retaggio evolutivo di dover scoprire le leggi nascoste della realtà prima che la rivoluzione scientifica ci desse un solido metodo per farlo.

Queste intuizioni, sebbene indispensabili per navigare nella vita di tutti i giorni, sono sproporzionate alla nostra migliore comprensione moderna del mondo. L’incompatibilità ci rende vulnerabili alle superstizioni e alla pseudoscienza.

Ad esempio, siamo dualisti intuitivi: sentiamo che le persone sono fatte di due cose, un corpo e una mente. Non trattiamo gli altri come robot o burattini, ma supponiamo che abbiano convinzioni e desideri e un sentire come il nostro, che attribuiamo a una mente o un’anima intangibile, un fantasma nella macchina.

(Questo contrasta con l’idea scientifica dominante che la vita mentale origini da neuroni che si attivano secondo uno schema). Da qui il passo è breve per credere che le menti possano separarsi dai corpi, e così credere in spiriti, anime, fantasmi, l’aldilà, la reincarnazione e la percezione extrasensoriale.

Siamo anche essenzialisti intuitivi, poiché percepiamo che gli esseri viventi contengono un’essenza invisibile o una linfa vitale che dà loro forma e forza.

Questo istinto ha permesso ai nostri antenati di riconoscere la continuità tra le diverse sembianze di una singola specie (come le uova, i semi, i fiori o le larve) e di estrarre cibo, medicine e veleni dai loro tessuti.

Ma da essenzialisti è breve il passo per intuire che la malattia deve essere causata da una distorsione della propria essenza da parte di un contaminante estraneo.

Ciò a sua volta rende naturale tirarsi indietro di fronte ai vaccini, che, dopotutto, introducono un po’ di un agente infettivo in profondità nei tessuti di un corpo sano.

Invita all’omeopatia e ai rimedi erboristici che ci infondono tinture dall’apparente essenza di un essere vivente sano. E ispira le molte forme di ciarlataneria che prevedono di sottoporsi a purghe, salassi, digiuni, sudorazione, coppettazione e altri mezzi per “sbarazzarsi delle tossine”.

Infine, siamo teleologi intuitivi, consapevoli che i nostri piani, strumenti e artefatti sono progettati con uno scopo. Come ha osservato il teologo del diciannovesimo secolo William Paley, quando trovi un orologio a terra deduci correttamente che è stato progettato da un orologiaio.

Ma da lì il passo è breve per desumere che l’universo ha uno scopo, e quindi credere nell’astrologia, nel creazionismo, nella sincronicità e nella filosofia che “tutto accade per una ragione”.

Questa mentalità può anche portare a teorie cospirazioniste sostenute dalla verità che i nostri nemici possono davvero pensare a modi per danneggiarci e che, essendo vigili contro di loro, i falsi positivi possono essere meno costosi dei falsi negativi.

Fiducia

La terza chiave per l’irrazionalità pubblica è pensare a come disimparare queste intuizioni popolari e acquisire una comprensione più sofisticata.

Non si tratta di esercitare il proprio genio interiore, ma di affidarsi a chi ha competenze comprovate: scienziati, giornalisti, storici, registri governativi e autori responsabili e verificati.

Dopotutto, pochi di noi possono davvero giustificare le proprie convinzioni da sé, comprese quelle vere. I sondaggi hanno dimostrato che i creazionisti e i negazionisti del cambiamento climatico non sono, in media, scientificamente meno istruiti dei credenti (molti dei quali attribuiscono il riscaldamento al buco dell’ozono, alle discariche di rifiuti tossici o alle cannucce di plastica nell’oceano). La differenza è il tribalismo politico: più ci si sposta a destra, più c’è negazionismo.

Per quanto mi riguarda, mi sono vaccinato contro il Covid per cinque volte, ma quello che capisco di come funzionano i vaccini va poco oltre a “qualcosa che fa qualcosa al sistema immunitario con gli anticorpi mRna”.

Fondamentalmente mi fido di quegli individui in camice bianco che dicono che funzionano. Convinzioni traballanti, al contrario, persistono nelle persone che non si fidano della sanità pubblica, che la vedono solo come un’altra fazione, in competizione con i predicatori, i politici e i volti noti di cui si fidano.

In altre parole, dobbiamo tutti fidarci delle autorità; la differenza tra i credenti che probabilmente hanno ragione e quelli che quasi certamente hanno torto è che le autorità che il primo gruppo ascolta si dedicano a pratiche e appartengono a istituzioni che sono esplicitamente pensate per separare la verità dalle falsità.

L’ultimo pezzo del puzzle sul perché la gente crede a cose stravaganti è che dipende da cosa si intende per “credere”. George Carlin ha osservato: «Dì alla gente che c’è un uomo invisibile nel cielo che ha creato l’universo e la stragrande maggioranza ti crederà. Dì loro che la vernice è bagnata e sentiranno di doverla toccare per accertarsene».

Questa distinzione è stata tratteggiata più formalmente dallo psicologo sociale Robert Abelson nel suo articolo classico Beliefs Are Like Possessions, che distingue tra convinzioni “distali” e “verificabili”.

Toccare la vernice e altre verifiche empiriche è il modo in cui navighiamo nella zona della realtà in cui viviamo le nostre vite: gli oggetti fisici intorno a noi, le persone con cui abbiamo a che fare faccia a faccia, la memoria delle nostre interazioni.

Le convinzioni in quest’area sono verificabili e il compos mentis tra noi le mantiene solo se è probabile che siano vere. Non hanno scelta: la realtà, che non scompare quando smetti di crederci, punisce le illusioni.

Le persone però credono anche a sfere di esistenza che sono lontane dalla loro esperienza quotidiana: il passato lontano, il futuro inconoscibile, popoli e luoghi lontani, corridoi remoti del potere, il microscopico, il cosmico, il controfattuale, il metafisico.

L’esperienza che abbiamo non ci dà un fondamento per credere in come ha avuto inizio l’universo, o quando sono apparsi per la prima volta gli esseri umani, cosa fa piovere, o perché accadono cose brutte alle brave persone, o cosa succede realmente nello Studio Ovale, nella sede centrale di Microsoft o nel sale da pranzo di Davos.

E nemmeno, tranne per alcuni promotori, agitatori e decisori, le nostre convinzioni su questi argomenti fanno alcuna differenza.

Questo però non significa affatto che le persone si astengano dal credere a queste cose imponderabili. Possono adottare convinzioni divertenti, stimolanti o moralmente edificanti. Se le credenze in questa zona mitologica siano oggettivamente “vere” o “false” è per loro inconoscibile e quindi irrilevante.

Anche in questo caso c’è una sorta di razionalità storica in questa noncuranza. Fino ai tempi moderni – la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, la storiografia e il giornalismo sistematici, i registri pubblici e la raccolta dei dati –  la verità su questi regni remoti era davvero inconoscibile e la mitologia era un tipo di credo valido quanto un altro.

Questa è l’intuizione umana predefinita quando si tratta di convinzioni su queste questioni recondite. Per apprezzare la naturalezza di questa mentalità mitologica, non è necessario invocare i cacciatori-raccoglitori nella savana del Pleistocene.

Basta pensare all’umanità per la maggior parte della sua esistenza, e alla stragrande maggioranza delle persone oggi che non hanno abbracciato il credo illuministico secondo cui tutta la realtà è in linea di principio conoscibile dalla mentalità scientifico-analitica.

Il risultato è che ci sono tanti tipi di credo mitologici quante sono le domande sul mondo al di là dei nostri sensi. Il più ovvio è la religione, che, come allegramente ammette la maggior parte dei suoi aderenti, è una questione di fede, più che di ragione o evidenza.

Un altro è costituito dai miti nazionali sui gloriosi martiri e gli eroi che fondarono le nostre grandi nazioni. Ma non è così comune trovare storici disposti a far menzione dei loro difetti.

Anche molte teorie del complotto sono considerate miti avvincenti più che ipotesi credibili. Quelli che credono in ampie cospirazioni nefaste, come i complottisti dell’11 settembre, fanno i loro incontri apertamente e pubblicano le loro denunce, apparentemente senza preoccuparsi del fatto che il regime onnipotente avrà zero tolleranza nei confronti dei coraggiosi narratori di verità come loro.

Si potrebbe paragonare QAnon a un gioco di ruolo dal vivo, con i fan che si scambiano avidamente indizi e seguono le piste. Anche il suo progenitore, il Pizzagate (secondo il quale Hillary Clinton gestiva un giro di sfruttamento della prostituzione minorile dal seminterrato di una pizzeria di Washington), aveva una qualità di finzione.

Come ha fatto notare lo scienziato cognitivo Hugo Mercier, praticamente nessuno degli aderenti ha preso provvedimenti commisurati a una tale atrocità, come ad esempio chiamare la polizia. (Uno di loro ha lasciato una recensione da una stella su Google).

Ad eccezione di un fanatico che ha fatto irruzione nel ristorante sparando a raffica per salvare i bambini, tra i sostenitori di Pizzagate la frase “credo che Hillary Clinton gestisse un giro di sfruttamento della prostituzione di minori” può davvero essere tradotta con: “Credo che Hillary Clinton sia così depravata da essere capace di gestire un giro di sfruttamento della prostituzione di minori” o, forse ancora più precisamente, “Hillary... Buuu!”

Le convinzioni che esulano dalla nostra esperienza immediata, quindi, possono essere l’espressione di impegni morali e politici più che asserzioni dello stato delle cose.

Molti di noi sono sconcertati da questo modo di pensare. Una cosa è credere che Hillary Clinton sia una persona moralmente compromessa – tutti possono legittimamente avere un’opinione – ma è piuttosto diverso, e del tutto inaccettabile, esprimere quell’opinione come affermazione fattuale inventata.

I miti dell’élite

Il nostro modo di pensare però è esotico e innaturale. Molti pensano che sia l’esito di un’istruzione superiore che ha trasmesso l’idea che ci sia una questione aperta sugli stati del mondo; che anche se non lo sappiamo, ci sono modi per scoprirlo; e che, come disse Bertrand Russell: «Non è desiderabile credere a una proposizione quando non c’è alcun motivo per supporre che sia vera». In effetti si può dire che questa mentalità sia il dividendo più importante dell’istruzione superiore.

O almeno, lo era. Ecco un altro candidato per il mito: i sacri credi delle élite accademiche e intellettuali. Questi includono la convinzione che nasciamo come pagine bianche, che la differenza sessuale sia una costruzione sociale, che ogni differenza nelle statistiche sociali dei gruppi etnici sia causata dal razzismo, che la fonte di tutti i problemi nel mondo in via di sviluppo sia l’imperialismo europeo e americano e che l’abuso e il trauma repressi sono onnipresenti.

Molti osservatori sono rimasti sorpresi che la repressione del dissenso nelle università contemporanee avvenga per mezzo delle seguenti convinzioni: deplatforming, cancellazione, veti del disturbatore, defenestrazione, denunce plurifirmate, alterazioni della memoria negli articoli di giornale. Le università, dopotutto, dovrebbero essere il luogo in cui le affermazioni vengono interrogate e contestate, rese complesse e decostruite, non criminalizzate. Eppure queste convinzioni non sono trattate come ipotesi empiriche ma come assiomi che i membri degni della comunità non possono contestare.

La cancel culture delle università può essere una regressione dell’intuizione umana predefinita secondo cui le credenze distali non sono altro che espressioni morali, in questo caso l’opposizione al fanatismo e all’oppressione.

L’intuizione predefinita è stata anche intellettualizzata e rafforzata dalle dottrine del relativismo, del postmodernismo, della teoria critica e del costruzionismo sociale, secondo le quali le pretese di oggettività e verità sono meri pretesti per il potere.

Questo connubio di intuizione e teoria può aiutarci a dare un senso alla reciproca incomprensibilità tra la scienza liberale illuminista, secondo la quale le credenze sono cose su cui le persone oneste possono sbagliarsi, e il wokeismo critico postmoderno, secondo il quale certe credenze sono autoincriminanti.

Si può fare qualcosa? I promotori del cosiddetto “pensiero critico” convergono nell’esprimere un’idea: dobbiamo cercare di insegnare a sviluppare la consapevolezza degli errori e dei pregiudizi cognitivi.

Cercano di inculcare abitudini di attiva apertura mentale, vale a dire cercare prove sia negative sia confermative e cambiare idea quando le prove cambiano.

Ma gli insegnanti sanno che le lezioni tendono a essere dimenticate. È difficile, ma vitale, incorporare un’attiva apertura mentale nelle nostre norme di scambio intellettuale ovunque avvenga.

Dovrebbe essere evidente che gli esseri umani sono fallibili e i pregiudizi sono onnipresenti nella storia umana e che l’unica strada per la conoscenza è affrontare e valutare ipotesi.

Discutere contro l’interlocutore o in modo aneddotico dovrebbe essere tanto mortificante quanto discutere sulla base di oroscopi o delle viscere di animali; soffocare un’opinione onesta dovrebbe essere considerata risibile quanto le dottrine dell’inerranza biblica o dell’infallibilità papale.

Le norme della razionalità devono essere implementate come regole di base delle istituzioni. Queste istituzioni devono risolvere il paradosso di come l’umanità nel suo complesso abbia raggiunto risultati di grande razionalità anche se ogni singolo essere umano è vulnerabile agli errori.

Sebbene ognuno di noi sia cieco ai difetti del proprio pensiero, tendiamo a essere più bravi a individuare i difetti nel pensiero degli altri, e questo è un talento che le istituzioni possono mettere a frutto.

Un’arena in cui una persona solleva un’ipotesi e altri possono valutarla ci rende più razionali collettivamente di quanto lo sia ognuno di noi individualmente.

Esempi di istituzioni simili che promuovono la razionalità includono la scienza, con le sue richieste di test empirici e peer review; la governance democratica, con i suoi pesi e contrappesi e la libertà di parola e di stampa; il giornalismo, con le sue richieste di redazione e controllo dei fatti; e la magistratura, con i suoi procedimenti in contraddittorio.

Wikipedia, strumento sorprendentemente affidabile nonostante la sua struttura decentrata, ottiene la sua accuratezza attraverso una comunità di editori che correggono il lavoro di altri, tutti impegnati in principi di obiettività, neutralità e correttezza delle fonti. (Lo stesso non si può dire per le piattaforme web che si basano sulla condivisione istantanea e i like.)

Se vogliamo avere qualche speranza di far avanzare convinzioni razionali contro l’ondata di pregiudizi, intuizioni primitive e pensiero mitologico, dobbiamo salvaguardare la credibilità di queste istituzioni.

Esperti come i funzionari della sanità pubblica dovrebbero essere preparati a mostrare il proprio lavoro piuttosto che pronunciarsi ex cathedra.

La fallibilità dovrebbe essere riconosciuta: tutti siamo ignoranti su tutto all’inizio, e ogni volta che il cambiamento di una prova richiede di modificare l’opinione, questa cosa dovrebbe essere promossa come una prontezza a imparare invece che essere taciuta come una concessione di debolezza.

Forse la cosa più importante è che la politicizzazione delle nostre istituzioni che si occupano di cercare la verità dovrebbe essere fermata, poiché alimenta un pregiudizio cognitivamente paralizzante.

Le università, le società scientifiche, le riviste accademiche e le organizzazioni non profit di interesse pubblico si sono sempre più etichettate con il marchio “woke” e le parole d’ordine della sinistra.

La difesa della libertà di parola e di pensiero non deve subire tale sorte. I suoi sostenitori dovrebbero avere a portata di mano gli esempi storici in cui la libertà di parola è stata indispensabile per cause progressiste come l’abolizione della schiavitù, il suffragio femminile, i diritti civili, l’opposizione alla guerra in Vietnam e i diritti degli omosessuali.

Dovrebbero perseguire i censori di destra con lo stesso vigore di quelli di sinistra, e non dovrebbero concedere spazio agli intellettuali conservatori o ai sobilatori che non sono amici della libertà di parola, ma sono semplicemente nemici dei loro nemici.

Il credo della ricerca universale della verità non è il modo umano naturale di credere. Sottoporre tutte le proprie convinzioni al processo della ragione e delle prove è cognitivamente innaturale.

Le norme e le istituzioni che sostengono questo credo radicale sono costantemente minate dal nostro ricadere nel tribalismo e nel pensiero magico e devono essere costantemente apprezzate e salvaguardate.

Questo articolo è stato pubblicato dalla testata online Persuasion. Traduzione di Monica Fava.

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