Comincia col rumore di una vecchia 126 del padrone di casa, un motore che ricorda il canto di un muezzin, l’estate di Bianca Fenizia nel suo primo libro, un romanzo famigliare vista mare. Pasolini contava la vita a estati, Leo Benvenuti diceva: «In fondo la vita sono venti estati utili», e I padroni del mare (Rubbettino) ne mette insieme diverse per capire e capirsi.

Si va a Jonia, paese nel quale convergono le Calabrie, con una madre che «ha il sorriso più bello di Diane Keaton», e dove c’è un nonno battezzatore seriale di luoghi ed eventi che sembra uscito dalle mani di Ettore Scola e Giovanni Verga, proprio perché ha l’aria d’essere vero col suo grande sorriso nascosto tra i baffi.

Paesaggi, riti e «grandi pranzi come spostamenti di mobili», si sente l’amore di una famiglia che annoda il tempo, senza mai essere patetica o melensa, lasciando vincere la leggerezza, affetto svolazzante tra dolori.

C’è una compostezza dei rapporti e una gerarchia che va dai posti a tavola a quelli in cucina che rasenta l’ordine militare mentre si sfida «la provvisorietà del tempo e la scomodità dello spazio» per stare insieme, perché quello conta.

L’estate è lo stare insieme, e il mare un giardino dove immaginarsi e ricordarsi, una calamita che attrae e distrae, un vecchio parente da correre a salutare: immergendosi, tanto c’è il levante come phon. E poi c’è l’ironia, un’ironia sottile come quella di Nora Ephron che da New York si trasferisce nelle Calabrie trovando nuove storie, nuovi personaggi e nuove voci. Mescolando realtà e finzione, vivi e morti, fino ad ottenere un gran bell’esordio.

Senza nostalgia

Linearità, forza e porosità, così la storia di Bianca Fenizia conquista. Non c’è la fuffa del rimpianto, ma la capacità di evocare; non c’è l’imbroglio né l’ammicco, ma la sincerità di chi non conosce la professionalizzazione delle emozioni; non c’è la plastica politica di volere uno spazio commerciale, ma l’esigenza di scrivere per comprendere e comprendersi.

Perché il mondo di Jonia è quello delle sfumature del Sud, dove per starci serve una abilità da surfista, perché ogni discussione è un’onda che rischia di travolgerti, un lavello diventa un oceano e ogni evento ti insegna qualcosa, spostandoti.

Gadda diceva che la luce elenca le cose del mondo, e Fenizia sembra essere gaddiana in questo, perché riesce ad elencare il mondo di Jonia: persone e oggetti, paesaggi e anime, con una semplicità sconcertante, se il nonno della storia è abile nel battezzare le cose che lo circondano, Fenizia è abile nel nominarle, impilarle, ri-montarle, perché il suo romanzo è un lungo elenco di momenti preziosi divenuti pure archetipici.

La sua è una lunga difesa dalla nostalgia, dal perduto, che poi è l’essenza dell’estate che scioglie tutto mentre te lo regala, rimane solo l’effimero e quell’effimero – fondamentale – sta ne I padroni del mare.

Tra case stregate e vite tornanti – come i germanesi – spiagge selvagge e un orizzonte ancora da rovinare, Fenizia apparecchia una commedia divertente in un «far west senza cowboy ma con molti motorini» dove poter fare gite nelle case che non si abitano come se fossero musei.

Sentiamo la voce narrante crescere e capiamo il tempo che passa, anzi «accelera non appena si uniscono gli ingredienti» del pranzo che la nonna, divisa tra la sua bellezza allo specchio e il soffriggere della cipolla, sta preparando, estetica e pragmatismo, con il salotto come palcoscenico – come insegna Eduardo De Filippo – dove inseguire o inscenare la felicità.

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