All’improvviso suona la campanella dell’intervallo ed è come se fosse una sveglia riattivata trenta anni dopo. Sono nell’androne deserto del liceo Einstein di Milano. Il mio liceo; o quasi, la maturità non l’ho fatta qui, ma è una storia lunga.

Venendoci avevo sperato per un attimo che la sua ferrea tradizione di scuola renitente al movimentismo si fosse sgretolata davanti al supplizio della Dad. Invece nulla. Non c’è nessuno. Ma non credo dipenda dalla severità della scuola, ahimé. Ho girovagato un po’, ho ritrovato la mia classe, uguale al tempo, c’è solo un computer in un angolo. Il camp esterno dove ci allenavamo per i giochi della gioventù circondato dal bellissimo edificio razionalista di un anonimo genio, oggi ancora più bello di un tempo. Incrocio risalendo la porta dei bagni, e solo a leggere quella parola riprovo un brivido di profonda eccitazione. I bagni. Una vita a parte, un mondo protetto dallo sguardo adulto, a safe heaven.

Una assistente scolastica (bidella, nel gergo scorretto del tempo) dopo avermi intercettato come intruso e avermi subito perdonato – empatizza con il mio stato di evidente malinconia – ci racconta che lì hanno protestato solo due ragazze. Qualche giorno prima hanno fatto Dad fuori dalla scuola, ma poi faceva troppo freddo e hanno mollato.

L’Einstein rimane il liceo un po’ conservatore di un tempo, chissà se è ancora tra i migliori licei scientifici d’Europa (che sia mito o realtà, è il motivo per il quale andai lì, lontano da casa mia) anche se la preside (direttrice scolastica) che incontro poco dopo sembra uscita da una serie inglese di sinistra, solo più elegante. Giovane e cool ascolta anche lei la storia strappalacrime che aveva già conquistato la bidella: tutto questo silenzio, ingombrante e insopportabile, che risuona dopo i gol negli stadi vuoti, alla fine delle canzoni nei concerti in streaming e, con maggior dolore, ho appena scoperto, dopo la campanella dell’intervallo che abbiamo sentito poco prima.

È del tutto evidente che ne soffrono tutti; insegnanti, bidelle simpatiche e accoglienti. La preside mi invita a tornare quando sarà di nuovo pieno. È bellissimo, dice, quando è pieno. Sob.

Ricaccio i ricordi, un trip di primi amori e toccatine in luoghi immaginari su corpi la cui fisionomia era un enigma, prime canne – le migliori e peggiori al tempo stesso, quelle prima di entrare a scuola – e le prime fughe, i tentativi di manifestazioni e picchetti andati malissimo, la squadra di pallamano, la moto truccata, quello che aveva già la macchina, I Promessi sposi, la più bella della scuola, il prof che mi disse che scrivevo bene in seconda liceo dopo essermi beccato per un anno intero solo dei «2, fuori tema» e tutto il resto, potrei andare avanti per ore, ma li caccio via i ricordi, perché non li reggo, ora che sono nel futuro e davanti al mio ex-liceo ci sono affisse centinaia di immagini stilizzate di ovali con una mascherina addosso, frecce direzionali e tutta la parafernalia pandemica che se me l’avessero detto al tempo, quando leggevo uno via l’altro Orwell, Philip K. Dick e Ballard, avrei risposto solo «Vacci piano con i cylum al mattino». E invece no, la nostra scarsissima capacità di prevedere il futuro inizia a essere la migliore definizione del genere umano; piuttosto grave, soprattutto perché il futuro dovremmo costruircelo noi.

Ce ne occupiamo noi

E quindi dal futuro di uomo adulto lascio la proiezione di me (chissà se ne avevo una al tempo, dal futuro immaginiamo sempre un passato di idee poi tradite o realizzate, passato immaginario, un piccolo inganno che facciamo a noi stessi, per soffrire meglio o stare peggio) che emana dalla struttura cartesiana dell’Einstein e mi dirigo al Parini.

Attraversando il centro città per arrivarci mi chiedo se troverò ancora eskimo, clarks e qualche pantalone a zampa d’elefante. Mi chiedo da quanto tempo è che non parlo con dei ragazzi del liceo, è tanto, troppo tempo, forse da quando feci una serie di documentari con i ragazzi per Mtv, saranno passati quindici anni, cazzo, quindici, ci voleva la pandemia anche per questo, dannato virus che ci ha riportati sulla terra. Io comunque scommetto tra me e me che troverò almeno un paio di clarks o un eskimo o un pantalone a zampa d’elefante.

Al Parini hanno occupato fin dal mattino. Hanno sistemato dei banchi in cortile e occupato alcune aule e hanno fatto la Dad insieme, lì. Commovente è un aggettivo che non rende l’idea. Devo trovarne un altro, ma ci penserò dopo; ora devo trattare con la signora Vincenza che giustamente ci ferma all’ingresso. Mentre io balbetto che sono uno scrittore, che vorrei scrivere una storia per un quotidiano etc etc, di fronte all’espressione scettica della Vincenza a salvarmi ci pensa Maddalena, 16 anni, capelli lunghi molto seventies e voce calmissima. Dice che garantisce lei per noi. Vincenza si convince ed entriamo.

Le lezioni sono appena finite, il cortile è semideserto. In un angolo un ragazzo mangia della pastasciutta giallognola da un contenitore di plastica. Lo saluto con un cenno, risponde. Maddalena comincia a parlare prima ancora che io le chieda qualcosa. Intanto partiamo dalla complessa questione del piano d’attacco. Si sono guadagnati, penso in modo non cruento, anche la possibilità di accedere al terzo piano per appendere gli striscioni: il più grande dice «Non l’avete ricostruita voi – Ce ne occupiamo noi». Da notare l’assenza della k e l’uso della c.

Tamponati e per un giorno felici

Sostanzialmente l’azione ha preso le mosse dal primo mattino; due intrepidi si sono intrufolati e hanno iniziato le trattative con la signora Bianca, bidella, anzi no custode, si corregge subito Maddalena (che, en passant, ha i pantaloni a zampa, ho vinto la scommessa con me stesso) e dopo una breve trattativa dovuta anche al fatto che l’azione era in realtà prevista, sono poi andati a parlare con la vicepreside e anche con lei la negoziazione è stata breve, convergente ed efficace. In una parola: era d’accordo con loro. Anche perché non volevano ostacolare le lezioni, al contrario, e dunque anche gran parte del corpo insegnanti ha capito e condiviso il senso dell’occupazione light che è dunque avvenuta in totale concordia.

Ci raggiunge Ludovica, anche lei al terzo anno di liceo, occhi belli e acquosi sopra la mascherina, un montone anch’esso molto seventies. Dice che in effetti è filato tutto liscio. Hanno potuto stendere gli striscioni e altri cartelli con slogan piuttosto condivisibili, se non addirittura moderati: «Test rapidi subito», «Priorità alla scuola». Hanno parlato brevemente con i giornalisti e poi si sono messi a far lezione. Alcuni in cortile, altri nelle classi, al massimo in dieci e comunque avevano fatto tutti il tampone, un gesto rilevante, e di illuminata autogestione. Sono certo che potendo lo farebbero individualmente a spese loro – certo siamo in centro a Milano non sarebbe così facile nel grande altrove italiano, e per questo rimane inammissibile che nessuno, ma proprio nessuno, si sia occupato di pianificare un controllo bisettimanale con tamponi rapidi effettuato direttamente nelle scuole. Avrebbe semplicemente risolto il problema.

Ma chi investe sul futuro in Italia? Nessuno. E la cosa peggiore è che non si tratta di una frase retorica. Magari. È un’evidenza. Come lo è la felicità sui volti degli studenti; gli mancava stare insieme, gli manca come l’aria, come gli occhi che si guardano e si cercano febbrili, come i loro corpi belli e spietati. Per un giorno, uno solo, sono contenti. E anche io.

La Dad è classista

Maddalena continua, con voce calma. Dice che a lei la Dad poteva sembrare una soluzione a marzo, quando non si sapeva cosa fare, quando la pandemia era una cosa nuova e grazie a Dio che c’era la Dad! Però dopo hanno avuto mesi e mesi per progettare un ritorno in sicurezza e non l’hanno fatto, «Siamo rimasti alla Dad. Ci hanno preso in giro, hanno posticipato le date di rientro come unica decisione presa, non sappiamo se e quando torneremo e non abbiamo alcuna idea di cosa stiano facendo la regione e il governo perché ciò avvenga». Facile, rispondo io: la regione non ha fatto un cazzo, il governo invece uguale. Ridiamo. Ludovica aggiunge che una cosa l’hanno fatta, quasi: i banchi a rotelle, e in effetti fa ridere. E piangere. «Il punto è che è stato posticipato tutto all’infinito senza una motivazione» prosegue Ludovica. «Hanno posticipato per poi posticipare di nuovo e non per usare il tempo per mettere a punto un piano risolutivo o almeno migliorativo».

Mi pare la sintesi più completa che abbia sentito rispetto alla strategia (quale?) del governo sulla scuola. Peraltro, applicabile anche a prima della pandemia. Procrastinare. Prendere tempo, anche quando non c’è. Il tempo, altra risorsa a costo zero come le vite dei ragazzi e dunque utilizzabile a piacimento. Il fatto che la pandemia ci abbia ricordato che il tempo invece vale sempre decine di migliaia di vite non sembra aver cambiato l’atteggiamento della nostra classe dirigente, per la quale il rinvio non è una opzione, è una strategia.

Maddalena, rassegnata, dice che loro semplicemente non hanno valore perché non producono Pil, e quindi chissenefrega, interviene Ludovica per dire che «Ci sono decine di migliaia di ragazze e ragazzi chiusi in casa in situazioni in cui è molto complicato essere chiusi in casa; famiglie che vivono in 27 metri quadri, contesti difficili. È classista la Dad. Io sono del Parini, in centro a Milano, siamo privilegiati, però la lotta è una lotta comune che deve aiutare tutti. Noi difendiamo i diritti di tutti, soprattutto di chi è più in difficoltà di noi». Maddalena annuisce con finta distrazione, solo per continuare lei il discorso: «Anche noi più fortunati abbiamo problemi di connessione. Pensa a chi non ha mezzi. Ha perso un anno di scuola. E poi andando a scuola tu ti fai gli amici, ok? Se io non vado a scuola ho più difficoltà a farmi degli amici, a conoscere meglio le persone e dal punto di vista psicologico è una tortura. Svegliarmi la mattina alle otto e alle otto e un quarto collegarmi alla mia scrivania, magari una volta ti alzi per girare un attimo per casa e poi? Oltre al fatto che chi aveva già dei problemi psicologici li ha visti aggravarsi. E chi non ne aveva ha iniziato a conoscerli. Si è incrementato il livello di problemi con il cibo da parte degli adolescenti per fare solo un esempio».

Condizione di infelicità

Ludovica non è d’accordo, sostiene che quel tipo di danno ci sarebbe stato comunque anche con una pianificazione migliore, che comunque c’è una pandemia e la scuola in presenza avrebbe potuto aiutare ma non sarebbe stata risolutiva. Colpisce la lucidità e la mancanza di ogni tipo di volontà di semplificazione; non chiedono l’impossibile, sanno bene che la situazione è complessa, riconoscono che tornare a scuola non risolverebbe tutti i problemi, ma di certo sanno che sarebbe decisivo per migliorare la situazione.

A un certo punto Ludovica dice una cosa che mi colpisce molto, parla di una «condizione di infelicità» preesistente e molto diffusa tra gli adolescenti, che è stata solo moltiplicata dalla pandemia. Penso ai dati tragici che stanno venendo fuori; per esempio una ricerca del Bambin Gesù di Roma mostra un picco dei suicidi, dei tentati suicidi e degli adolescenti in cura per ideazione suicidaria. Per non parlare delle ferite autoinflitte; corpi spietati, che si puniscono da soli, non potendo vivere. C’è un momento di silenzio, io non sapendo che fare mi volto un secondo, il cortile si sta popolando di nuovo, gruppetti di studenti, con mascherina, a distanza, chiacchierano. Uno speaker bluetooth fichetto suona rap italiano. Il ragazzo al banco continua a mangiare la sua pastasciutta gialla.

E, chiedo a Maddalena e Ludovica, cosa pensano del fatto che il piano vaccinale preveda che siano praticamente gli ultimi a riceverlo. Non lo hanno nemmeno testato sotto i sedici anni. Mi dicono che è giusto così. Dicono però che i professori e gli insegnanti andrebbero vaccinati subito. Mi stupisco una volta di più della loro ragionevolezza, mi chiedo se non sia eccessiva. Io sarei molto più incazzato di loro. Non so dirmi perché, ma ho l’impressione che debbano alzare la voce un po’ di più per farsi sentire. Oppure, se la guardo da un altro punto di vista, mi sembra di intravedere un’idea molto sbandierata e mai praticata nel nostro paese. Questi ragazzi sono riformisti.

È tutto incomprensibile

Dicevamo del fatto che la pandemia viene ancora trattata come un’emergenza e non per quello che è diventata, ovvero un grosso problema socio-sanitario di medio periodo. «Sì, è assurdo – stavolta concordano – è passato un sacco di tempo e ancora non si capisce niente. E la crisi di governo è davvero incomprensibile, del tutto evitabile, non capisco le posizioni di Renzi. Al limite se proprio devono fare la crisi si vada a votare, hanno votato in America, non vedo perché non possiamo farlo anche noi». Eh, gli dico, male per male, a sto punto, meglio il voto. Le capisco.

Mi sembra che quello che un tempo era il conflitto generazionale ora sia diventato uno iato; non si capisce cosa stiano facendo gli adulti. Così è anche più difficile formarsi una propria identità, non solo manca qualcuno in cui riconoscersi, manca anche qualcuno contro il quale battersi. Incomprensibile è la parola chiave. Per loro, e sommessamente, anche per chi scrive, da un punto di vista logico e politico, è incomprensibile quello che sta accadendo.

Forse solo scendendo sul piano personale, che poi è il male assoluto della politica, si può capire. Motivazioni personali, poco interesse per la collettività; anche le buone idee quando ci sono, diventano strumento per mosse che non sembrano avere nessuna ricaduta effettiva sulla loro realizzabilità. «La critica spietata alla gestione della pandemia è legittima e condivisibile ma non è legittimo usarla come mezzo per la propria autoaffermazione o sopravvivenza politica». Ludovica la chiude così. Datele torto, se ci riuscite.

Luigi, diciotto anni, ministro subito

Luigi ha 18 anni ed è stato rappresentante di istituto l’anno scorso. Mi avvicino al suo banchetto da cortile, ha finito la sua pasta gialla (chissà cos’era, glielo chiederò) e ha voglia di raccontare. Parla di quanto sia importante il senso di comunità che il liceo gli ha insegnato, parla della bellezza del cortile pieno di trecento studenti che stanno insieme, parla delle privazioni insopportabili, benché condivise, anzi, quando gli chiedo quanto abbia sofferto mi dice che hanno sofferto di più i suoi genitori, una che lavora nel teatro e l’altro nel digitale. E che lo hanno visto soffrire.

La sua è una sequenza di argomenti logici e ragionevoli, pieno di una sensibilità che sorprende perché non siamo più abituati a riconoscere. Quando gli chiedo se è fidanzato mi dice di sì, mi parla della difficoltà di aver dovuto rinunciare alla vicinanza e all’intimità in un modo addirittura fin troppo maturo per la sua età; racconta baci rubati in passeggiate di quartiere, dell’impossibilità di stare solo con la sua bella, ma, appunto, è ragionevole. Dice di aver osservato sempre le regole, chiedendosi se si potesse abbracciarsi e darsi un bacio, e finendo col rispondersi di no.

È un bel ragazzo, fisico sportivo, capelli mossi e quasi ricci, scuri sopra un viso da giovane maschio. Ha la giacca di una famosa scuola di vela. Ma non è un fighetto, anzi. Il suo ragionamento è solido, condivide il punto di vista che gli offro sul rapporto tra emergenza e pianificazione, mi confessa alla fine che hanno deciso di occupare il liceo anche di notte, perché non si può, dice, fare finta di niente.

Si lamenta che la riduzione della scuola a didattica sia un errore madornale, la scuola è anche, se non soprattutto, altro, che la didattica disumanizzata non è più tale. Anche solo dare un pugno per scherzo a un amico, dice, non si capisce se si può o è vietato. Quando perdi le cose che davi per scontate, aggiunge, te ne accorgi e ti risvegli. Ti rendi conto di quanto sia importante vedere le facce degli amici a scuola, anche solo darsi un cinque o prendersi a botte per scherzo. Parla di microcomunità che si sono create, dei cluster, li chiama lui, di quattro o cinque amici che si frequentano in esclusiva.

Gli chiedo se questa esperienza crede che cambierà il modo in cui vive ed è percepita la sua generazione, i nativi digitali. Quelli che hanno una vita sociale solo attraverso l’intermediazione di un device, quelli solo whatsapp e Instagram. Dice che già non era così, ma se il Covid è servito a qualcosa è proprio questo: rinforzare l’idea, che, dice lui, gli era già ben presente, che le comunità sociali “reali” sono irrinunciabili e fondamentali, altrimenti non avrebbero sofferto così tanto la vita digitale dell’ultimo anno. Aggiunge, di nuovo, che senza il liceo forse questo senso di appartenenza e di comunità non lo avrebbe imparato. E che di questo sono consapevoli i suoi genitori, che lo vedono soffrire e gli dicono che l’anno della maturità per lui, per loro, sarà diverso. Non c’è il minimo atteggiamento vittimistico; anzi, ribadisce che stanno soffrendo tutti, i suoi genitori in primis.

Piuttosto è sorpreso che nessuno si renda conto della ragionevolezza di quel che chiedono. Io penso ai populisti in parlamento e addirittura al governo, penso a persone come Di Maio e realizzo, istantaneamente, che Luigi, diciotto anni, ha capacità e competenze sicuramente maggiori di loro, per non parlare della padronanza di linguaggio, consapevolezza e addirittura buonsenso. E mi chiedo che cosa farà nella vita e quale ruolo sarà in grado di offrirgli la nostra società.

Prima di occupare, poche ore prima, tiene a ricordarmi di nuovo che si sono assicurati che tutti i partecipanti avessero tampone negativo, una di loro non ce l’aveva, è stata inviata cordialmente a farlo, prima di tornare al Parini. Ne sono giustamente fieri. E hanno ragione. Non basterebbe questo? Testare i ragazzi, magari limitare a quattro i giorni di scuola in presenza, investire risorse in presidi scolastici dotati di tamponi rapidi? Sì, basterebbe. Si chiama allocazione di risorse e pianificazione. Entrambe discendono dalle priorità. È sempre più evidente che i ragazzi non lo sono, per lo stato italiano.

Esco, triste e felice. Mi ferma un ragazzo dall’accento latino. È della chiesa confinante, mi dice che è arrivato un pallone dal cortile del Parini. Mi ha preso per uno studente. Mascherina, cappello e un probabile difetto di vista del giovane. Rido, dico ai ragazzi lì accanto del pallone. Bella, mi risponde uno. Mi allontano pensando che non ho chiesto a Luigi che diavolo di pasta stesse mangiando.

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