«In fondo, quello che mi interessa è confrontarmi con la sofferenza umana. Non importa in che continente ci si trovi o in che contesto culturale si viva, il dolore dell’uomo è sempre lo stesso». Abdoulaye Konaté parla dal suo studio di Bamako, capitale del Mali, stato dell’Africa occidentale segnato da tensioni, violenze e fondamentalismo. Legato indissolubilmente alla cultura in cui è nato, Konaté è uno di quegli artisti africani che, pur avendo avuto un importante riconoscimento in occidente, continua a vivere e lavorare nel proprio paese. È stato invitato a Documenta 12 nel 2007. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2017. Alcune sue opere sono state acquisite anche dal Metropolitan Museum di New York, dello Smithsonian di Washington e sono entrate nella collezione di Uli Sigg.

A Documenta aveva portato due istallazioni di tessuti colorati, una intitolata Bosnie Angola Rwanda (1996), l’altra Gris Gris pour Israel et la Palestine (2005). La prima è un unico grande arazzo dal fondo rosso su cui sono applicati quattro rettangoli di stoffa bianca “feriti” con aperture/strappi che lasciano intravedere, di nuovo, il colore del sangue. Ai piedi del drappo, una pedana bassa dove, sopra un telo rosso, sono appoggiati indumenti usati di diversi colori. Come fossero reliquie a contatto, evocano le vittime delle guerre a cui si fa riferimenti nel titolo dell’opera. «Molti pensano che io lavori su un piano politico», spiega Konaté, «in realtà intervengo più sul piano sociale. Poi, è chiaro, certi temi incrociano la politica. Ma non è quello che mi interessa. L’arte non cambia direttamente la società, stimola la ragione e la sensibilità, che è ciò che ci distingue dagli animali».

Un segno indelebile

L’uso di oggetti di scarto, stracci e vestiti dismessi non è una novità nell’ambito delle espressioni artistiche del XX secolo. Basti pensare al Nouveau Realisme e l’Arte Povera negli anni Sessanta. Se con le sue opere Michelangelo Pistoletto ha mostrato l’incontro tra contemporaneo e classicità (si pensi alla Venere degli stracci del 1967), se Jannis Kounellis e Christian Boltansky con i vestiti dismessi carichi di memorie hanno dato immagine a vite passate che, come ombre fissate nella Storia, hanno lasciato il loro segno indelebile, Konaté toglie la metafora dalla dimensione del passato e la getta nell’agone della cronaca. Il dramma che ritrae è raffigurato mentre si sta svolgendo.

L’indumento-persona è protagonista anche di un’altra opera di Konaté: L’intollerance (1998). Qui i vestiti dismessi, anziché appoggiati per terra, sono utilizzati come campiture di colore. La parte inferiore dell’opera è occupata da stoffe rosse che richiamano un’altra vicenda di spargimento di sangue, quella dell’Algeria degli anni Novanta. Vediamo, oltre agli abiti di colori sgargianti, bossoli di proiettili, buchi su pezzo di tessuto che evocano gli occhi, il naso e la bocca di una vittima, un libro sigillato da un nastro rosso (potrebbe trattarsi di un Corano e, volutamente, la natura religiosa del volume non è esplicitata). In altre opere di Konaté simboli come la croce, la mezzaluna, la scimitarra interagiscono con le bandiere delle grandi nazioni: gli Stati Uniti, la Russia, la Cina. C’è anche quella dell’Unione europa.

Spesso i titoli chiariscono gli argomenti che Konaté intende affrontare: Lutte contre le HIV (1996), La zone des Grands Lacs (2005), Génération biométrique (2008), Pouvoir et religions (2011). «I temi legati alla sofferenza umana mi perseguitano, abitano la mia mente per mesi prima che riesca a trovare una traduzione visuale che mi soddisfi», dice l’artista. «In questo momento, ad esempio, continuano a tornarmi in mente i giornalisti uccisi nel mondo per il loro tentativo di far conoscere all’opinione pubblica fatti che qualcuno non voleva che conoscessimo».

Il bogolan

Non tutta la produzione di Konaté è legata ai temi sociali. Nel grande stendardo intitolato Brésil (Guaranì), presentato alle Biennale di Venezia del 2017, il riferimento è alle assonanze intercettate tra la cultura primordiale degli indigeni dell’Amazzonia e quella delle tribù del proprio paese. L’opera si inserisce in un altro filone di ricerca dell’artista africano, caratterizzato dall’uso del bogolan, il tessuto di cotone tipico della tradizione del Mali, che viene tinto con fango fermentato. Con il bogolan Konaté realizza delle composizioni accostando piccoli rettangoli di tessuto colorato. Il riferimento è alle frange dei costumi tipici della tradizione del suo paese, sia quelli dei cacciatori, che quelli dei musicisti.

Nelle regioni del nord, nella stagione fredda, si ritagliano i pezzi buoni di vecchi vestiti inutilizzabili e si assemblano di nuovo per fare abiti nuovi. Ciascun frammento di stoffa diventa un tassello di un mosaico di colori. A volte si tratta di figure stilizzate di uomini, animali, insetti di chiara impronta simbolica. Altre la simbologia è meno esplicita. L’effetto è di una superficie dinamica, accentuata dall’ombra che ciascun frammento proietta su quello inferiore. I colori sono appariscenti. La maggior parte delle volte sono a tinta unita. Ricordano le tonalità intense degli oggetti colpiti dalla luce dell’Africa.

Quando gli chiedo che rapporto abbiano tra loro due dimensioni così diverse del suo lavoro, quella esplicitamente legata all’impegno sociale e quella che si concentra più sull’aspetto estetico-formale, Konaté dice che è come se viaggiasse a due velocità. Quando si cammina, spiega, si porta avanti prima un piede e poi l’altro. È una questione di equilibrio. Da una parte l’artista sente il bisogno di impegnarsi con il tema della sofferenza, con lavori anche molto forti, che impegnano una grande energia mentale ed emotiva. Mentre per realizzare le opere con le composizioni di colori, il processo è meno drammatico: «Guardo la natura, gli animali. Ultimamente mi interessano le immagini che ci arrivano dalle esplorazioni spaziali».

Oggi Konaté ha 68 anni e una carriera che nessun altro artista del suo paese può vantare. Ha girato il mondo e, in un certo senso, ha portato il mondo nella sua Bamako. Gli chiedo che cosa, in tutti questi anni, abbia imparato di sé e degli uomini. «Ho incontrato tante persone buone». Dice. «Molto umane. Ho visto in loro anche molta sofferenza. E ho incontrato uomini molto ricchi, più di quanto io potessi immaginare, capaci di insegnarmi l’umiltà». Per l’artista è la vita e il desiderio di vivere che continua a spingerlo a creare. È la voglia di comunicare ciò che scopre lavorando. «In fondo, a parte i materiali e i temi, non è un lavoro diverso dagli altri. Penso al medico che è sempre lì. Incontra malattie e malati tutti i giorni. Lo chiami di notte e lui viene. Deve essere sempre pronto. Ed è così per me. Quando sono a casa, in studio, in città. Ci sono temi che mi perseguitano e penso lo faranno fino alla fine dei miei giorni».

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