«Dalla prua del peschereccio, Yussuf al Mehari vide l’isola, bianca e netta nella leggera foschia del mattino. Ogni giorno della tua vita è una pagina della storia che stai scrivendo, diceva sempre quel miserabile di suo padre. Per una volta aveva avuto ragione.

Yussuf Non aveva chiuso occhio durante la traversata, ma il mal di testa, a Dio piacendo, gli aveva dato tregua. Estrasse dalla tasca l’astuccio d’argento pieno di compresse di Captagon e lasciò che i raggi obliqui del sole giocassero a riflettersi sulla superficie piatta dell’oggetto. Aveva raccomandato ai suoi ufficiali di distribuire una compressa ad ogni miliziano prima dell’assalto. Li avrebbe resi infaticabili, euforici e sicuri d’essere invincibili. (…)

L’imbarcazione rallentò mentre imboccava Cala Madonna. Il golfo si restringeva intorno ai fianchi azzurri del peschereccio, e Yussuf ammirò la piatta scogliera di roccia calcarea, e l’acqua che da blu mutava in verde, e poi in azzurro chiarissimo. Quando furono a venti metri dalla riva, Yussuf fece un cenno. Il boccaporto si aprì, e simili a scarafaggi neri i soldati di Allah brulicarono dal ventre alla tolda della nave. Gli uomini dell’equipaggio lanciarono fuoribordo grossi rotoli di cordame, mentre il motore tossiva e si spegneva. I primi miliziani si calarono nell’acqua bassa immergendovi gli stivali. Arrancarono fino alla spiaggia, stringendo il cordame sotto le ascelle, e poi tirarono fin quando la chiglia dell’imbarcazione si posò dolcemente sulla sabbia.

Altri uomini si lanciarono dai fianchi della barca, atterrando nell’acqua bassa con le armi ben alte sulla testa. In breve l’immacolata spiaggetta di Cala Madonna si riempì di uomini vestiti di nero. Yussuf chiuse gli occhi. Sentì il sole e l’aria salmastra accarezzargli la barba. Immaginò, anzi, vide, come le avesse davanti agli occhi, le altre cale dell’isola riempirsi di uomini devoti ad Allah, uomini che avevano una missione, e la fede per compierla. Il suo volto si aprì in un sorriso…»

È una delle prime inquadrature de L’Isola (Fandango editore), il romanzo che abbiamo scritto in questa lunga stagione di lockdown e che da un paio di giorni è in libreria. Romanzo, certo. Dunque opera di fantasia, improbabile per definizione, libera di seguire la propria trama come Ulisse seguì il suo istinto: ovvero senza doverne rendere conto a nessuno (lui magari sì, alla mite Penelope…). Ma siete davvero certi che la storia che L’Isola racconta sia solo un’inoffensiva mitologia letteraria? Noi no, per niente.

Il libro racconta quello che potrebbe accadere se i Leoni della Jihad, una falange terrorista ben addestrata e armata, decidesse di conquistare Lampedusa per farne il loro primo califfato nel cuore dell’Europa. A guidare i dodici pescherecci diretti verso l’isola è l’emiro Yussuf al-Mutlak: in una manciata di ore i suoi uomini sgominano le difese di Lampedusa, impongono la shari’a, dividono gli uomini dalle donne, compiono esecuzioni di massa riprese e subito caricate in rete. Sotto gli occhi sgomenti dell’Occidente l’isola diventa il primo territorio sottomesso al fondamentalismo islamico. Naturalmente, appena le immagini di quello che sta accadendo a Lampedusa rimbalzano in rete, il governo italiano si prepara allo sbarco spalleggiato dagli altri governi dei paesi del G8. Ma le cose si metteranno subito male…

Fin qui la storia immaginata. I fatti di questi anni ci dicono invece che tutto questo potrebbe accadere davvero: magari non a Lampedusa, magari non domani, magari non con esiti così imprevedibili come quelli narrati nel nostro libro. Ma il punto è proprio questo: dall’inizio del secolo la cronaca ha spesso addomesticato ogni nostra confortevole idea della storia. Chi avrebbe immaginato l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre di diciannove anni fa? Se uno scrittore avesse trasferito l’attacco di Al Qaeda e i tremila morti di New York nel plot di un proprio romanzo avrebbero detto che era una novella di fantascienza, credibile e probabile quanto gli umanoidi di Blade Runner. Invece è accaduto. Non perché il male assoluto sia sempre oltre ogni nostra immaginazione ma perché la storia si nutre di se stessa, delle proprie necessità, delle implacabili logiche che stanno dietro ad ogni eccesso, ad ogni follia, ad ogni sventura.

Opinionisti e politologi si sono esercitati per anni, dopo l’undici settembre, per ricostruire la somma di indizi che avevano preparato quell’attacco, per coglierne la sua ineffabile logica, perfino la sua spietata prevedibilità. Prevedibile perché il male è la vocazione inevitabile dell’uomo? No, più semplicemente perché talune cose – anche le più remote - accadono se qualcuno si convince che possono accadere. Nei loro rifugi pakistani, Osama bin Laden e la sua corte di famigli e seguaci si convinsero che la risposta all’aggressione americana in Afghanistan poteva essere un attentato capace di mettere l’America in ginocchio. Immaginarono il più apocalittico. E lo fecero diventare realtà in una tiepida mattina di settembre mandando quattro equipaggi di miliziani addestrati ad uccidere e a morire a tirar giù grattacieli, pentagono e Casa Bianca.

Pensate che sia davvero improbabile, oggi, un atto di terrorismo internazionale come quello che raccontiamo ne L’Isola? Solo fantascienza? Ce lo auguriamo. Ma il nostro è un augurio, non una certezza.

L’Isola in realtà racconta anche altro. Soprattutto altro. Come reagiremmo noi? Cosa accadrebbe nei palazzi in cui si decide? Come si mescolerebbero tra loro ambizioni, paure, menzogne, fughe, rancori, carriere? Come in un b-movie americano, dove i “giusti” conoscono le parole della saggezza?

Nella nostra storia non ci sono saggi. C’è la vita. Come se quella guerra silenziosa in corso in una piccola isola nel cuore del Mediterraneo abbia finalmente portato alla luce la verità interiore di ciascun personaggio, magari negata fino a un istante prima. E così accade – come spesso accade nella vita - che di fronte all’imprevedibile ciascuno di loro metta da parte le pagine del proprio copione.

E decida di improvvisare.

«Nello studio del Presidente del Consiglio l’assistente alla regia alzò la mano con le dita aperte. Ad alta voce fece il conto alla rovescia, cinque quattro tre…

Ferraris era seduto dietro la sua massiccia scrivania, immobile, pietrificato. Aveva cercato di riordinare in qualche modo carte e carpette per non trasmettere agli italiani la confusione che in quell’istante gli riempiva i pensieri. I suoi collaboratori gli avevano detto che quel collegamento in diretta televisiva, a reti unificate, era un azzardo: ma lui che altro poteva fare? La notizia che l’attacco era ormai diventato una stabile e feroce occupazione militare si era diffusa in poche ore. E adesso gli toccava dire il resto: i primi ammazzati dai terroristi, i bambini usati come scudi umani, marina, aviazione ed esercito fermi in aria e in mare, paralizzati da quel ricatto senza precedenti mentre gli americani minacciavano di andare a risolvere tutto come nei film di John Wayne. Solo che laggiù c’erano bambini italiani, non comparse americane.

Sapeva che avrebbe dovuto spiegare tutto questo senza mai perdere la calma, con tono grave ma sereno, capace di trasmettere forza e sicurezza a sessanta milioni di italiani e ad altri settecento milioni di persone che avrebbero assistito al suo discorso in tempo reale attraverso i network più importanti di tutto il pianeta. Forse nessuno mai aveva parlato in diretta a un pubblico così vasto: e Ferraris era terrorizzato.

Diede un’ultima occhiata ai pochi che era stati ammessi nel suo studio, ammassati dietro la linea invisibile delle telecamere: Rebaudengo, Martinetti, la Meucci… Avevano una faccia a lutto. Gli sembrò che la sottosegretaria alla presidenza avesse cominciato silenziosamente a piangere.

L’assistente alla regia finì il count down: due, uno…

“Buonasera…”

Vide uno dei tecnici che scuoteva la testa.

“…cioè buongiorno…”. Deglutì. “…è che vorremmo tutti che questa giornata fosse già conclusa…”

E si bloccò. (…) Gli sembrò di sentire il silenzio sospeso con cui settecento milioni di persone aspettavano le sue parole. Scostò sul tavolo i foglietti che s’era preparato con una traccia delle cose da dire e parlò a braccio…».

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