Dei bambini piccoli si ricorda la prima parola, la prima distinguibile fra balbettii sperimentali spesso d’incerta interpretazione: mamme e papà si contendono le sillabe e l’orgoglio di essere stati invocati dal pupo con il suo primo fiato intelligibile.

L’ira

Se la letteratura fosse un bambino, quella che ricorderemmo come la sua prima parola – la prima della letteratura greca, e quindi, in un certo senso, anche della nostra, di cui quella greca è l’antenata – sarebbe ira. Un’ira, nella fattispecie, molto virile: quella di Achille che s’inalbera contro Agamennone, il capo della spedizione degli Achei, perché si è appropriato indebitamente di Briseide. Briseide, a sua volta, è una ragazza, dunque ai nostri occhi l’aspetto indebito dell’appropriazione non combacia (per fortuna) con quello che appare tale ad Achille: per lui, come per tutti gli energumeni impegnati nella guerra di Troia, Briseide non è tanto una ragazza quanto un bottino di guerra. Una schiava, che spetta ad Achille perché se l’è guadagnata in battaglia: come uno scudo, un elmo, una spada. Come una cosa.

Del resto, anche la ragione per cui gli Achei si trovano a morire come mosche nell’assedio di Troia ha a che fare con l’idea che le donne, tanto quanto gli oggetti, possano essere rubate, riprese, riscattate; altrimenti non si sarebbero precipitati ad attaccare la rocca orientale su cui governa Priamo solo per vendicare l’onore di Menelao, la cui moglie è scappata di casa, o, nella loro versione: è stata rapita da Paride, figlio scapestrato di Priamo, che oltretutto a Sparta, nella reggia di Menelao, era un ospite.

Fra l’altro, Menelao è il fratello di Agamennone, che guida la spedizione; e siccome i venti non volevano saperne di soffiare gonfiando le vele delle navi della flotta greca, che ha fatto Agamennone, per propiziarsi il viaggio? Ha preso un’altra ragazza – Ifigenia, sua figlia – e l’ha sacrificata, sgozzandola come una capretta. Certo, la pagherà cara; del resto la sua è una stirpe disgraziata, e quel sacrificio avrà incalcolabili conseguenze cruente, su di lui – destinato a essere ucciso dalla moglie Clitennestra, in combutta con l’amante Egisto – e sul sangue del suo sangue. Un’altra ragazza, sua figlia Elettra, la sola fra le sorelle di Ifigenia che non riuscirà a dimenticare il trauma, si incaricherà di vendicarlo, e anche la sua vita ne sarà spezzata.

Ira è la parola con cui si apre il racconto di questa formidabile congerie di violenze che si propagano per contagio: l’Iliade, il più antico dei poemi omerici, inizia per l’appunto con la voce del poeta che domanda alla musa di cantare per lui l’ira di Achille – funesta – e le sue deleterie conseguenze. Ménin aeide, theà: l’ira canta, o dea, laddove la dea in questione è Calliope, musa della poesia epica. Calliope, che significa letteralmente “dalla bella voce”, è figlia di Zeus, nientemeno che il re degli dèi, e di Mnemosine, la personificazione della memoria, a cui Zeus, sfoderando il suo tipico mimetismo seduttivo, si presentò nelle sembianze di un pastore; dopo nove notti d’amore sui monti della Pieria, Mnemosine partorì nove ragazze, fra cui Calliope, per l’appunto: le nove muse, divinità protettrici delle arti, del canto, delle danze.

Quando si trattò di inaugurare il monumentale racconto in versi che noi chiamiamo Iliade, la Musa, evidentemente, obbedì alla richiesta del cantore, che chiamiamo con il nome di Omero ma che probabilmente contiene una piccola folla di bardi antichi, fusi insieme dalla tradizione che ha forgiato il personaggio del vecchio poeta cieco sommando molte identità: da cui i versi immortali, l’offesa sanguinosa di Achille, la morte di Patroclo, la vendetta, il cavallo di Troia e l’astuzia degli Achei, anzi, di Odisseo; e lo strazio di Priamo, la rocca in fiamme, la fuga di Enea con il padre sulle spalle, insomma, tutto quello che la storia ci tramanda.

La voce di Calliope

Ma che sarebbe successo, se Calliope fosse stata meno docile? Se si fosse ribellata, o ancora, se invece di prestare la sua voce all’uomo che gliela chiedeva, l’avesse usata a modo suo? Se invece di cantare per il poeta, gliele avesse cantate? Precisamente da quest’ipotesi tanto controfattuale quanto seducente muove Il canto di Calliope, romanzo corale in uscita in questi giorni per Sonzogno nella traduzione di Monica Capuani.

L’autrice, Natalie Haynes, è una classicista, e con appassionato rigore offre, finalmente, a Calliope una voce tutta per sé, che le permette di raccontare storie vecchie di migliaia di anni rendendole nuove di zecca; perché la Musa dà la parola, infine, a quelle che non sono mai state ascoltate – non in questi termini, almeno. La sua Calliope sembra dapprima una dea volubile, quando si impunta davanti alla richiesta del cantore. Parrebbe un capriccio, il suo; ma presto scopriamo che ha intenzioni serie. Ha intenzione di cantare le donne nell’ombra, di portarle finalmente dentro il cono di luce.

E lo fa attingendo alla fonte dei testi antichi, scovando nelle tragedie e nei poemi riflessi dei personaggi femminili di questa storia mastodontica che tritura le vite dei mortali come niente fosse. Riscatta, con la voce della sua musa canterina, il silenzio di Virgilio sul tormento di Creusa nella notte di panico in cui si perde tra la folla in fuga da Troia che brucia. Riprende dalla tragedia di Euripide il dolore silenzioso della vecchia Ecuba, la regina degli sconfitti, ridotta in schiavitù dopo aver perso troppi dei suoi tanti figli. Racconta, da dietro le quinte, la competizione fra dee, fra Afrodite, Era e Atena, per il giudizio di Paride, chiamato a decretare chi sia la più bella.

L’Iliade, il poema che inizia con uno scoppio di rabbia per una schiava contesa come fosse un oggetto, è un poema maschile, una storia di guerra in un tempo in cui la guerra era affare da uomini. Ma una guerra, scrive Haynes «non ignora metà della gente di cui tocca le vite». Per ognuno degli uomini di cui il poema omerico riporta le gesta di protagonista sul campo di battaglia, Calliope ora canta i pensieri, i dolori, l’amore, delle donne che nell’ombra ne sono state testimoni; madri, amanti, dee, schiave. È così che il racconto torna vivo, e queste storie tornano a parlarci, a commuoverci come fossero nuove. Perché in effetti lo sono: nuove, eppure antichissime.

Il rispetto delle fonti

L’operazione potrebbe apparire un po’ spericolata, oppure studiata a tavolino, e invece proprio il rispetto delle fonti antiche le infonde una ieratica profondità perturbante. Fa pensare all’avverarsi della tensione del desiderio che innerva un bellissimo carme di Saffo, che dice, nella traduzione di Salvatore Quasimodo:

Un esercito di cavalieri, dicono alcuni,‎

altri di fanti, altri di navi,‎

sia sulla terra nera la cosa più bella:‎

io dico, ciò che si ama.‎

[…‎]

ora mi ha svegliato il ricordo di Anattoria

che non è qui;‎

ed io vorrei vedere il suo amabile portamento,‎

lo splendore raggiante del suo viso

più che i carri dei Lidi e i fanti

che combattono in armi.‎

Ora il passo delle donne che gravitano intorno alla guerra di Troia lo possiamo ascoltare, possiamo fissare il candore dei loro volti. E le navi, e le armature, e le lotte, anziché sbiadire, ne acquistano nuovo risalto. I personaggi diventano persone, come se cadesse la maschera; si rivelano, con l’imporsi delle donne sulla scena, umani, in carne e ossa. È come se gli eroi dell’epica acquistassero una terza dimensione proprio grazie alle donne, che li generano, che li amano, che li perdono, che li tradiscono, che sono intorno a loro fra tutti quei testosteronici scatti d’ira. Che hanno voci, e cuori, e pensieri che meritano di essere ascoltati.

Cantami, o diva; e la diva canta, eccome.


Natalie Haynes è autrice del libro Il canto di Calliope, edito da Sonzogno e tradotto da Monica Capuani

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