Il rumore delle sbarre che si chiudono alle spalle. E poi l’oblio: narrativo, ma in fondo anche esistenziale. Per lungo tempo le serie crime si sono fermate qui: sulla soglia delle carceri, in un rassicurante happy end che consegnava il colpevole alla giustizia. Al suono delle manette, si andava tutti a letto sereni e fine. Poi però sono arrivati gli americani (già, ci sono sempre di mezzo loro) e quell’ideale confine tra noi, onesti cittadini, e loro, i cattivi assicurati alla giustizia, si è dissolto. I prison drama, ossia le serie tv ambientate in carcere, hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora catapultandoci in un mondo fatto di guardie, secondini e galeotti. Un universo efferato e disperato, ma che allo stesso tempo ha tanti, troppi, punti di contatto con il nostro mondo. Il successo è stato immediato: da Prison Break in poi, abbiamo smesso di andare a letto sereni appassionandoci a cult tanto claustrofobici quanto geniali, come Orange is the new black.
«Dal punto di vista drammaturgico, i prison drama vantano una posta in gioco altissima: qui la dicotomia è tra vita e morte, libertà e detenzione», dice Armando Fumagalli, direttore del master in International screenwriting and production dell’Università Sacro Cuore di Milano. «Inoltre il carcere svolge sulle relazioni un effetto simile a quello di una pentola a pressione: intensifica tutti i conflitti, li fa esplodere. Se ben scritta, la storia riesce quindi a supplire alla scarsa varietà delle location: un limite comunque da non sottovalutare perché l’assenza di esterni aiuta il budget ma non la resa visiva».  

La via italiana

Noi italiani, per la verità, ci abbiamo impiegato un po’ prima di avventurarci tra secondini e detenuti. Alla fine però i nostri sceneggiatori si sono fatti coraggio e hanno cercato una via italiana al genere del prison drama. Il primo esperimento in questa direzione è stato fatto la scorsa estate dalla Rai con Boez. Una docu fiction, ancora disponibile sulla piattaforma RaiPlay, che segue il cammino di sei ragazzi, detenuti in un carcere minorile di Roma, che accettano di percorrere la via Franchigena insieme all’escursionista Marco Saverio Loperfido e all’educatrice Ilaria D’Appollonio. Novecento chilometri a piedi in 50 tappe, il tutto ovviamente ripreso dalle telecamere. Il pellegrinaggio altro non è che una delle modalità di recupero proposte come alternativa al carcere: in Belgio il cammino esiste da 40 anni, in Francia da 30. Il risultato è un racconto autentico, che ha il coraggio di chiamare il male con il proprio nome senza cedere a buonismi. Fin dalle prime scene appare infatti chiaro che i ragazzi non sono finiti per errore in carcere: i reati commessi sono i più disparati, dallo spaccio al concorso in omicidio, e molti di loro sono ancora impantanati nei propri errori. Eppure in Boez non v’è sdegno, né scandalo, ma un cammino, condiviso fianco a fianco, di andata e ritorno nell’inferno delle anime. «È solo quando, con Boez, qualcuno ha iniziato a credere in me e nelle mie potenzialità, che ho potuto accarezzare l’idea di essere una persona diversa, migliore», ha detto uno dei giovani protagonisti. Il gradimento della serie, peraltro realizzata in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, è stato tale che la Rai sarebbe al lavoro su un ideale sequel, dove si racconta il reinserimento di questi ragazzi nella società.

Nel frattempo Rai 2 ha rilanciato con Mare fuori: il primo teen drama italiano ambientato in carcere, di cui è già in scrittura la seconda stagione. Per la verità il progetto risale addirittura a 18 anni fa. Ideato da Cristiana Farina, era destinato a Rai 3 salvo poi essersi arenato in seguito alla decisione della Rai di non programmare più fiction sulla terza rete pubblica. Farina ha dovuto quindi attendere che i diritti tornassero suoi, trovare un produttore e poi, finalmente, rimettersi all’opera, stavolta insieme al cosceneggiatore Maurizio Careddu. Mare fuori ruota attorno a un gruppo di giovani detenuti: alcuni sono finiti in carcere ingiustamente (pochi), altri hanno commesso gravi reati. Pur essendo di finzione e al netto delle derive melò, la storia risulta realistica: l'idea di Farina era nata dopo aver tenuto dei seminari a Nisida, il carcere minorile di Napoli. 

«Molti dei ragazzi che oggi finiscono in carcere sono persone che, a differenza della maggior parte di noi, affrontano e sfidano costantemente la paura più grande di tutte: la morte. Loro sanno perfettamente che non arriveranno a 30 anni. Lo hanno messo in conto perché è il prezzo da pagare se si vuole vivere al massimo», dice Farina. «Questo fa sì che le loro storie siano incredibilmente interessanti e, al contempo, drammatiche: adolescenti che non temono la morte ma si ritrovano persi nella loro stessa condizione. Ragazzi pieni di rabbia e risentimento che rispettano solo chi temono». Di episodio in episodio la serie svela inoltre il background di ciascun detenuto: dietro ognuno di loro, o meglio dietro ogni loro delitto, c’è un dramma familiare, una solitudine, un punto di rottura. Esattamente come in Boez anche qui emerge il passato drammatico dei protagonisti, spesso figli di genitori violenti, disperati, anaffettivi. «Non definirei Mare fuori una serie di denuncia», precisa Farina, «però sicuramente vogliamo suggerire una riflessione sociale: negare la libertà a ragazzi dai 14 ai 18 anni è una sconfitta per tutti noi. Vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa: qualcosa nella società non funziona. Vorrei che, al termine della visione, gli spettatori si chiedessero: cosa possiamo fare per cambiare le cose? L’Ipm (Istituto penitenziario minorile) è un’istituzione con scopo rieducativo ma da solo non basta. Gli operatori dentro fanno un gran lavoro e i risultati migliori li ho visti quando si adottano stimoli positivi più che quelli punitivi. Sul campo della negazione e della coercizione tra l’altro i ragazzi che ho conosciuto sono molto più preparati di noi».

Senza speranza?

Gettare la chiave smette insomma di essere l’unica opzione. 

Il che rappresenta un passo avanti non solo in termini di dibattito sociale e politico, ma anche di approccio drammaturgico: con il prison drama la figura dell’anti-eroe evolve verso orizzonti più maturi. Negli ultimi anni i bad heroes hanno infatti preso sempre più piede, e spazio, nelle fiction. L’esempio più noto sono i protagonisti di Gomorra: irrecuperabili e oscuri, hanno abbracciato la loro malvagità in un viaggio di sola andata verso morte certa. 

Con i prison drama si compie invece un ulteriore passo avanti. I protagonisti non sono certo meno inquietanti, anzi, ma non nascono già cattivi e, soprattutto, possono aspirare a un riscatto. «L’azione malvagia resta tale: non viene edulcorata. Però non definisce più la persona: non è l’ultima parola sulla sua vita», dice Fumagalli. «Nel raccontare questa nuova dimensione dell’anti-eroe, noi italiani dobbiamo stare attenti a non fare concessioni al melò: un ingrediente diffuso nelle nostre produzioni ma estraneo al prison drama che invece si caratterizza per essere prima di tutto una storia di fuga o di capacità di resistenza». E proprio le derive melò sono state uno dei limiti di Mare fuori. «Più che a degli anti-eroi mi piace pensare pensare ai protagonisti di Mare fuori come a dei bambini che sono entrati in un bosco e, lì dentro, si sono perduti. Proprio come nelle favole», dice Farina. «La domanda che Mare Fuori vuole sollevare è: cosa possiamo e dobbiamo fare per aiutare questi ragazzi a trovare il loro lieto fine?».

Il discorso si fa però ancora più interessante se si esce dal regno teen per entrare in quello adulto: quali sono qui i margini di redenzione? A questa domanda proverà probabilmente a rispondere Sky: suo è il primo prison drama italiano, dal titolo Il re. Il protagonista è nientemeno che Luca Zingaretti che abbandona temporaneamente i panni del commissario Montalbano per vestire quelli di Bruno Testori: il direttore di un carcere di frontiera. Come ha anticipato lo stesso Zingaretti, il ruolo è impegnativo. E la materia sicuramente incandescente. L’adolescenza è infatti per definizione l’età del cambiamento, degli errori, degli eccessi. Dunque, un ottimo scudo contro i pregiudizi. Nel caso degli adulti è facile invece sposare posizioni più severe e assolutistiche. «Il tema è quanto mai attuale e decisivo, soprattutto negli Stati Uniti», osserva Fumagalli, «lì il numero dei detenuti è ampiamente superiore al nostro e la cultura è molto meno garantista». Le serie tv si apprestano dunque a diventare un nuovo punto di osservazione su questo universo finora trascurato, e chissà che la via italiana al prison drama non possa essere proprio all’insegna del recupero sociale. 

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