L’unica catena che ci rende liberi è quella della bicicletta. Quando mi invitarono all’inaugurazione del museo della bicicletta di Alessandria, non potei resistere alla tentazione di concludere così il mio appassionato elogio della bici come mezzo di emancipazione. Era il 2017 e, da allora questa frase circola associata al mio nome ma non è mia; la lessi la prima volta su un quadro che mi venne regalato e la cui autrice, a sua volta, disse di averla trovata nel web con firma anonima. Così se magari tra i lettori di queste righe c’è chi sa risalire alla fonte, è pregato di farsi avanti in modo da rendere giustizia alla paternità/maternità dell’aforisma. Tutto questo per dire che è sempre alla libertà che si aggancia il mio pensiero, quando si ragiona sulle due ruote: siano pure quelle super competitive della maglia rosa del Giro, Tadej Pogačar.

Nonostante il pubblico degli appassionati del ciclismo sia diviso tra suoi sostenitori, entusiasti per la fantasia con cui anima le corse e detrattori, che lo accusano di voracità; nonostante il peso dei grandi successi già archiviati, che lo tengono sempre nella posizione scomoda di chi deve dare conferme e controllare; nonostante i cliché del vecchio ciclismo che vorrebbe i campioni come epici, eroi con maschere di fatica da tregenda e non sorridenti ragazzi che fanno l’inchino al traguardo e il selfie sul podio.

Nonostante questo e il molto altro che si nasconde dietro le vittorie, quella di Tadej Pogačar è una bella storia di un atleta fuori dagli schemi. Si potrebbe dire che ha personalità da vendere quando corre, imbastendo tattiche improbabili (a lui piace chiamarle “folli”) e vincenti, così come quando parla, esibendo indipendenza di pensiero e attenzione verso gli altri. C’è qualcosa nel suo modo di interpretare le corse e descriverle a posteriori, che dà l’idea di una persona che si esprime in maniera autentica, senza sovrastrutture, che vuole onorare ogni gara, col massimo impegno piuttosto che piegarsi alla logica del professionismo degli accordi, dello “spartirsi la torta”. Se così fosse davvero, certo non lo sarebbe per ingenuità o inesperienza.

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La sua crescita

A 25 anni ha già inanellato imprese tali per cui ci sono pochi ex corridori che potrebbero essere credibili nel muovergli critiche. Nel suo caso fare confronti col passato è impossibile per via della precocità, della continuità e anche della varietà che caratterizzano i suoi successi. È un pioniere del ciclismo dell’era moderna, il prototipo di un corridore del futuro che sta tracciando nuovi riferimenti. Perciò, come è destino per chi apre nuove vie, non a tutti risulta comprensibile. Non sono pochi i giornalisti che nel raccontarlo, esprimono disapprovazione, senza il dubbio di essere un tantino fuori luogo e piuttosto fuori ruolo. Tadej non fece nemmeno in tempo a passare professionista che già seppe classificarsi al terzo posto alla Vuelta. Era il 2019 e l’anno successivo, a 21 anni, vinse la gara più dura che il ciclismo conosca, il Tour de France.

Un Tour non si vince per sbaglio o per fortuna e tantomeno se ne vincono due di fila, come seppe fare lui. Da allora, l’elenco dei giri e delle classiche archiviate vittoriosamente è impressionante. Senza contare i piazzamenti, ovviamente. Non a caso è stato soprannominato Pogistar e ormai non è solo un campione ma una multinazionale. Più che esprimere consigli non richiesti sarebbe più utile, al ciclismo, manifestare una speranza: il desiderio che il valore commerciale del suo essere ciclista, non prenda il sopravvento sulla libertà di esprimere il suo talento.

Semibatti

Origini e progetti

E nato e cresciuto in Slovenia. Risiede a Montecarlo. Corre per la squadra degli Emirati Arabi. Pedala sull’italianissima bicicletta Colnago. Ovviamente parla inglese. Ha sponsor dislocati in tutto il mondo. Non meraviglia che sia una star dei social ma sbalordisce che sia riuscito a fare breccia su quelli cinesi. Ogni centimetro del suo abbigliamento da corsa vale oro. Ogni minuto del suo tempo si trasforma in denaro. Certo, la disponibilità economica aiuta la generosità ma Tadej non ci ha pensato troppo ad esprimere riconoscenza alla sorte: così, appena 21enne, dopo la prima vittoria al Tour, dà vita e finanzia il “PogiTeam”, progetto che prende il suo soprannome “Pogi” per dare forma al settore giovanile, sia maschile che femminile, della Rog Ljubjana, la squadra con cui ha iniziato il decollo verso le altezze a cui vola ora. Non è la prima volta che un ciclista di successo si impegna in questo senso ma nel suo caso, colpisce la giovane età in cui ha sentito la responsabilità di fare qualcosa per gli altri. Cosa te ne fai di essere un esempio per i giovani se i giovani non hanno opportunità e la libertà di mettersi in gioco? È la sintesi della saggezza con cui motiva l’iniziativa.

La bici e le generazioni

Imparare ad andare in bici è stata per molti decenni una tappa imprescindibile nella crescita di ogni bambino. Che festa quando si toglievano le rotelline, prima una poi l’altra e finalmente via, sulle due ruote alla conquista del mondo. Ma questo è stato vero fino ai Millennials (quelli della generazione Y, nati tra il 1961 e il ‘96). Già dagli Zoomers (la generazione Z, quella dei nati tra il 1997 e il 2012) le cose sono cambiate, complici due fattori: il trend per cui entro il 2030, il 70% della popolazione globale vivrà in città e la stima dei veicoli circolanti che, più o meno nello stesso lasso di tempo, arriverà ai 2 miliardi di unità. Togliendo dalla media le zone della Terra in cui non ci sono strade né biciclette e quelle in cui i problemi da risolvere riguardano la sopravvivenza, i tassi di automezzi circolanti per numero di abitanti spiegano perché la bicicletta, come mezzo di viabilità leggera e il ciclismo come sport, siano destinati a diventare anacronistici e terribilmente pericolosi.

L’Italia non è la Slovenia ma per fare un esempio coi numeri di casa nostra, ogni 1.000 abitanti abbiamo 681 auto (se consideriamo invece tutti i tipi di veicoli circolanti arriviamo a 910) e, purtroppo, ogni 35 ore una persona in bicicletta, viene travolta e uccisa. Perciò nella scala dei valori con cui è stato concepito il Pogi Team (che copre cinque categorie e una scuola di ciclismo) la sicurezza, in tutte le sue forme, è al primo posto. Al secondo, a parimerito, c’è la multidisciplinarietà: bmx, ciclocross, mountain bike, pista. Si, perché pedalare lontano dalle auto in modi e con mezzi diversi, non è solo un ottimo esercizio di prudenza ma anche un eccellente modo per far crescere i campioni e le campionesse di domani: allenare, divertendosi, una varietà di qualità coordinative e condizionali risulterà prezioso anche per chi, scoprendosi talentuoso, vorrà poi specializzarsi.

Come Pogačar insegna, in un ciclismo sempre più sofisticato, chiuso nei compartimenti stagni della tradizione, per portare qualcosa di nuovo, bello, entusiasmante devi essere libero da pregiudizi e condizionamenti, nonostante il rischio che ti giudichino folle. Di aforisma in aforisma, questa volta di paternità certa, «i pazzi aprono le vie che poi i saggi percorrono» diceva lo scrittore Carlo Dossi a fine ‘800, appassionato di sperimentazioni linguistiche dialettali e esponente della Scapigliatura. Sembra proprio scritto per Pogi, chiamato anche “ciuffo ribelle” per via di quei capelli che mai stanno veramente al loro posto, nemmeno sotto il casco.

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