No, non voglio assolutamente peggiorare la già difficile situazione. Not in my name. Ma ve lo ricordate com’era andare ai concerti? Chiudete gli occhi. Pensate che state per andare a un concerto. Mettete su i pezzi nuovi che ancora non li sapete bene, perché l’ultimo disco non l’avete davvero ascoltato. Decidete cosa mettervi – è importante quando si va a un concerto, fondamentale. Prendete accordi per la logistica: si va insieme? Ovvio. Arrivate. È strapieno di gente. Uno addosso all’altro. La folla! Peace&Love! Chi va a prendere le birre? Dove ci ritroviamo? A casa ebbri con le orecchie che ancora fischiano. A me, solo a pensarci, viene la tachicardia. Avremo paura? Ci scoppierà il cuore dalla gioia? Sì.

Un concerto virtuale

È per questo che alle 12 di un sabato mattina sto andando a un concerto virtuale. E insieme a me decine di migliaia di persone al mondo. Suonano i Gorillaz. Chi se non loro, la più famosa band virtuale della storia, forse prima e unica vera band virtuale della storia, potevano mettere in piedi uno show mondiale durante una pandemia? Loro, solo loro. E Albarn l’ha anche detto di recente, dall’hotel rifugio londinese nel quale è rinchiuso da settimane a preparare lo show con 40 persone che non aspettavano altro che una pandemia, i Gorillaz. Secondo il cronista di Rolling Stone US, ha accompagnato la provocazione con una risata “sardonica”. Ha anche detto che durante i lockdown aveva l’abitudine di svegliarsi alle 5 e leggere La metafisica dei costumi di Kant («Solo a quell’ora il mio cervello era in grado di provarci, e alla fine ce l’ho fatta, l’ho finita e forse l’ho capita!»). Signore e signori, Damon Albarn. Ma adesso, rewind.

Quando uscì Clint Eastwood incontrai i Gorillaz all’Hotel Diana di Milano, luogo che negli anni zero raccoglieva star assortite in città per tour e promozioni, wannabes, famiglie tamarre piene di soldi e qualche volta le troupe di MTV. Damon Albarn si fece attendere. Io mi ero messo una maschera per prenderli per il culo – si sapeva già che i Gorillaz erano Damon Albarn ma loro, con etica cazzara, post-moderna e art-rock continuavano a far finta di niente. Damon Albarn era in ritardo. Io ero contento. Tutti eravamo contenti, era il 2000, come si faceva a non essere contenti?

Quando arrivò dopo aver riso per il fatto che io avessi una maschera pelosa da orso/lupo addosso si inabissò nel divano chester, anche lui mascherato e felicemente strafatto, al punto che avrebbe riso anche se non si fosse presentato nessuno. Ogni volta che l’ho visto gli ho detto che volevo essere suo amico, lui ha risposto qualche volta ok, quale altra volta “lo siamo già” ma non ho mai avuto il suo numero di telefono. Peccato. A noi i Gorillaz piacevano un botto; un po’ perché gli inglesi intelligenti sono molto chic, un po’ perché se i pezzi ti fanno muovere il culo allora non occorre aggiungere altro e un po’ perché ci ritrovavamo qualcosa di punk, anche se io sono ormai così disperato che cerco il punk anche nelle descrizioni delle etichette dello shampoo. Insomma non ci dicemmo molto nel 2000. Un altro mondo era possibile.

Parlare di politica

In questi vent’anni ho incontrato Albarn molte volte, e ogni volta è stato interessante. Quella risata working class – non ho mai creduto alla teoria che i Blur fossero i borghesi intellò e gli Oasis i figli della working class - l’accoglienza per niente e contemporaneamente del tutto british, la nonchalance senza spocchia, i jeans sempre sdruciti, gli occhi quasi sempre affaticati e sempre, sempre molto ridere. Abbiamo parlato di tutto: dal climate change, alla primavera araba. Tanto che alla terza volta mi disse “ah tu sei quello che vuole parlare di politica”. E sorrise. Io felice; ogni volta mi son portato a casa la speranzella che la possibilità che la pop culture avesse un impatto fosse viva e vegeta. Speranzella, confermata dal mio inusuale appuntamento mattutino, ore 12, live da Londra, per tutto il mondo. Tre concerti a seguire la loro mini-serie Tv (Damon e Jamie dicono così, non è un album Machine Song Season One; hanno lanciato un video al mese, chiamandoli episodi) per i fusi diversi. Scelgo il sabato mattina perché è punk e perché mi piacciono le sfide.

È figo

Il collegamento è agile ed efficace. Siamo in una specie di magazzino buio che by-passa introiettandola la distopia realizzata del mondo là fuori, squat house meets art gallery. Oggetti sparsi e fasci di luce che fanno a pezzi il buio. Ma ehi, è un concerto vero, o almeno così sembra all’inizio, con il bel viso di Robert Smith che canta incastonato nella luna come se fossimo nel filmone di Méliès, il suo rossetto che ancora brilla, la sua voce che è sempre la sua voce. Alla fine nell’episodio video dedicato a questo pezzo sulla Luna appare la scritta Be the change, uno degli innumerevoli slogan politici che punteggiano la storia dei Gorillaz – l’episodio dedicato a Friday 13th (ft. Octavian) si conclude con la celebre citazione da James Baldwin, Not everything that is faced can be changed, but nothing can be changed until it is faced.

È figo sentire la voce di Smith cantare della Bielorussia, della candeggina da bere, e di quanto sia strano di questi tempi vedere la luce. Albarn ha degli occhiali da sole gialli a forma di ananas, i jeans e la giacchetta di pelle nera e quando il pezzo prende il giro giusto ti senti davvero a un concerto, almeno fino a quando non finisce e il silenzio è talmente irreale da buttarti fuori da tutto; riappaiono il computer, il tavolo su cui è poggiato, il fatto che no, non è un concerto. Ti aspetti il boato della gente. Un po’ come quando segnano negli stadi vuoti. Niente. Silence. E non puoi non pensare che cazzo io rivoglio i concerti veri. Tutto molto figo e grazie per l’aiuto, Gorillaz. Però che tristezza. Tra un pezzo e l’altro è quando ai concerti ti guardi intorno e allora io che faccio? Vado sui social a guardarmi intorno e a vedere chi c’è e c’è tutto il mondo; ognuno col suo fuso, ognuno con la sua lingua, ognuno che parla di che figata saltare e ballare da soli a casa. La comunità virtuale, davanti al concerto della band virtuale. Chi se non i Gorillaz? Non trovo molto conforto e torno a concentrarmi con il concerto, che è live come una call di zoom e dunque richiede concentrazione.

Non ti puoi distrarre

Arriva un coretto powerpop di ragazze asiatiche che canta «Do you know what a lazy culture Gorillaz are?» – solo uno dei frammenti di questo blob miracolosamente fluido – ogni pezzo potrebbe essere il singolo di un disco di un genere di un decennio e via così; i Gorillaz sono ricorsivi. Mentre si alternano le guest star in versione ologrammatiche, solo una volta, la bellissima ed eccellente cantante Fatoumata Diawara è fuori sinch, ma quasi è un di più. Forse è fatto apposta, per il resto tutto perfetto: il vero-finto look da centro sociale tipico di quel genio di Jamie Hewlett – il socio visivo di Albarn nella Gorillaz inc. - e le guest star in ologramma interagiscono alla perfezione. Dal punto di vista produttivo è uno show della madonna, il concerto è perfetto, gli elementi vanno tutti al posto giusto.

Damon non parla mai, come se sentisse di essere diversamente solo e nonostante i good feelings anche lui ha bisogno di un po’ di malinconia e allora il set cambia, appaiono drappi rossi, addirittura un albero di Natale. Parte il pezzo con Elton John guest star – c’è la sua voce che canta attraverso uno dei Gorillaz, 2D, con Damon Albarn che improvvisa al piano sulla track, The phantom is coming.

Nello schermo appare ancora 2D con una maschera per l’ossigeno. Non ti puoi distarrre un attimo, diciamo, ma proprio mentre lo sconforto ti riprende arriva Peter Hook (yeah!) in formissima peraltro e in effetti si sentono i New Order addomesticati della voce calda di Damon. Il pezzo si chiama Aires ed è un gran pezzo, ascoltatelo a palla. E già che siamo a Peter Hook, Albarn continua il viaggio a ritroso e suona il pezzo più punk dell’album, Momentary Bliss, che sembra davvero una B-side dei Clash ritrovata e risuonata – e il guest è SlowThay, punkrapper nato nel ’94 che a me piace un bel po’. C’è speranza!

La speranza

Speranza; non è sorprendente – capita anche a voi? – di avere la speranza come metro di giudizio di tutto ciò che vediamo. Non lo è, no. We’re in this togheter e infatti SlowThay, dopo la parte Clash si fa malinconico e canta “We can do so much better this”. Indeed, mate. E intanto nel pezzo dopo Albarn canta al piano con un cartello pittato con la scritta STAY NEGATIVE che è subito molto hot sui social e diventerà, ovviamente, la foto dell’evento.

Last living souls in ambientazione natalizia, tutto rosso, è commovente. Siamo gli ultimi esseri umani rimasti, Damon Albarn ne è sicuro e lo dice con la solita voce da domanda normale, che immaginiamo porci a vicenda preparando la cena, cantando in falsetto.

Commovente, ancora. Ma. Sembra finito, pronti a tornare alla pandemia, ma c’è un ma. Damon rimasto solo ci guarda. Estrae il suo bellissimo Omnichord Suzuky e dice che quando l’ha comprato ha schiacciato due tasti ed è venuto fuori questo. Parte l’intro di Clint Eastwood. I ain't happy, I'm feeling glad/I got sunshine in a bag/I'm useless but not for long/The future is coming on. E poi remix fighissimo. E vabbè. Il mondo che balla sui social in mille lingue. Mi commuove. Chi se lo sarebbe aspettato. La Feelgood inc. è ancora viva. Mi alzo e applaudo e salto da solo. Poi finisce. E non devo nemmeno cercare di capire dove cazzo è l’after-show. Posso tornare direttamente a letto, vuoi mettere la comodità.

 

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