«Gli scacchi non sono un gioco per bambine». Deve essere stato il primo approccio con la disciplina, così apparentemente spietato e risolutivo, a scatenare nella piccola Beth Harmon la curiosità e l’ostinazione a trasformare l’ignoto in qualcosa di famigliare.

Nelle parole del burbero Shaibel, custode di un orfanotrofio del Kentucky, nell’America intrisa di pregiudizi e disperazione degli anni Cinquanta, una bambina di nove anni trova il senso del riscatto, dell’affermazione sociale, del proprio posto nel mondo.

Così La Regina degli scacchi, la serie Netflix del momento, da settimane stabilmente nella top ten dei prodotti più visti sulla piattaforma, diventa un viaggio tortuoso alla scoperta di una personalità complessa, quella di una bambina che diventa adolescente e star affermata nel mondo tutto maschile degli scacchi.

Ispirata all’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis (lo stesso de Lo spaccone del 1959, da cui il celebre film con Paul Newman, che ha al centro un altro gioco di azzardo e strategia, ovvero il biliardo), la serie è un piccolo gioiello in cui tutti i tasselli si muovono e s’incastrano alla perfezione, in un disegno coerente proprio come i pezzi di una scacchiera. 

Il mondo in 64 caselle

Rimasta orfana dopo la morte della madre in un incidente che l’ha lasciata illesa, Beth viene accolta in un istituto d’ispirazione cattolica; nel seminterrato dove si trova la lavanderia, fa la conoscenza di Shaibel, un uomo ombroso e schivo che trascorre le giornate chino sulla scacchiera.

Per Beth è la scoperta di un mondo ricco di suggestione; nella sua mente prendono forma alfieri e torri, pedoni e cavalli, che la regia brillante di Scott Frank trasforma in pezzi che si muovono sul soffitto, nelle lunghe notti in cui la protagonista analizza le mosse, seziona le partite, trova rifugio e consolazione.

«Esiste un mondo in quelle 64 case (le caselle della scacchiera) e io posso dominarlo e controllarlo», arriverà a sostenere Beth. Shaibel la invita a giocare e intuisce di essere di fronte a un fenomeno, una formidabile giocatrice, dotata di un talento innato che è solo «una faccia della stessa medaglia: l’altra è il prezzo da pagare».

Nell’orfanotrofio, infatti, Beth comincia a sviluppare una dipendenza dai tranquillanti che la accompagnerà per tutta la vita insieme al vizio dell’alcol, ereditato dalla madre adottiva Alma, personaggio inquieto e sdoppiato, che la strappa dall’istituto in età adolescenziale.

È l’inizio di una nuova vita, tra viaggi, interviste, copertine, trionfi a tornei nazionali e internazionali; per lo spettatore è naturale lasciarsi trascinare, inevitabile farsi sedurre da una complessità umana in cui scorgiamo tormenti, limiti, intuizioni e rarissimi momenti di serenità.

I primi piani sugli occhi della protagonista (interpretata in età adulta da un’intensa Anya Taylor-Joy) sembrano voler aprire degli squarci per scandagliarne abissi e genialità, «creatività e psicosi che sono spesso compagne», come sottolinea una giornalista in una delle tante noiose interviste cui Beth si sottopone.

Calcolo, impulso, e riscatto

La regina degli scacchi (Queen’s Gambit il titolo originale, che richiama una mossa risalente al quindicesimo secolo) è un viaggio di formazione in cui riscopriamo il senso profondo del talento, la sua applicazione costante e razionale che si mescola all’intuito, quel fiuto «che non è materia di studio», come suggerisce la madre adottiva in una delle tante trasferte in giro per il mondo.

Gli scacchi sono un gioco di calcolo e impulso; codificati nel corso dei secoli in tecniche e modelli enigmatici e incomprensibili ai profani, è nell’estro del genio che rivelano la chiave della vittoria. E Beth è ossessionata dall’avversario, per lei non è contemplato perdere in una vita che l’ha già privata di molto e consegnata alla dipendenza.

Ma se è vero, come sosteneva lo storico olandese Johan Huizinga nel suo Homo Ludens del 1938, che gli scacchi sono l’esempio massimo del gioco in cui essenziale è il gusto visibile della vittoria, dove non si può improvvisare è nelle prime mosse, nelle “aperture”, argomento da manuale che consentirà alla protagonista di riallacciare i rapporti con una vecchia compagna dell’orfanotrofio.

Tra i meriti della serie c’è anche quello di appassionare alla disciplina coloro che ne sono estranei; tra difesa siciliana, infinite varianti di gioco e riproposizione di sfide reali del passato (si citano Reshevsky, Botvinnik e tanti altri campioni), la scacchiera diventa la lavagna su cui rileggere errori, speranze, scelte di vita e scrivere le mosse che condizioneranno il futuro.

Si entra in un mondo affascinante in cui i pezzi e le pedine sono autentici strumenti di salvezza e sopravvivenza, come nel romanzo Il club degli incorreggibili ottimisti di Jean-Michel Guenassia, in cui ebrei dell’Europa orientale esuli a Parigi trovano negli scacchi un modo per esorcizzare il dolore e la lontananza.

La regina degli scacchi è anche un trattato di eleganza, di estetica glamour che lo trasforma in un prodotto destinato a diventare cult; gli abiti di Beth, le acconciature, il lusso degli alberghi che contrastano l’austerità immutabile delle gare catapultano lo spettatore nel mito degli anni Sessanta, della scoperta e della creatività, con una colonna sonora perfetta che dai The Kinks ai Shocking Blue ai The Vogues puntella ascese e cadute della protagonista.

Sono gli anni della guerra fredda, in cui anche lo sport, e quindi pure gli scacchi, diventa strumento di esibizione di potenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica: il viaggio a Mosca e le sfide contro il campione Borgov assumono un valore ideologico rimandando inevitabilmente alla “sfida del secolo”, quella in cui Bobby Fischer (Beth è il suo alter ego?) sconfisse Spasskij a Reykjavik nel 1972.

In sette episodi che al colpo di scena prediligono le sfumature e l’andamento lineare, la serie sorprende per la capacità di mettere in scena un gioco che è metafora di un’esistenza, esaurendo l’arco narrativo e il percorso del romanzo, al punto da rendere difficile immaginare una seconda stagione.

Ma accetterà Netflix di lasciare i fan di Beth Harmon orfani di un’eroina così travolgente?

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