«Fare un festival come il nostro oggi è una sfida. Bisogna tenere insieme qualità e quantità»
Fabrizio Grifasi, direttore artistico di Romaeuropa Festival, ha iniziato ai tempi della new wave dei lontani anni Ottanta in un mondo di radio, concerti, teatrini e video sperimentali. In fondo non ha mai abbandonato le ambizioni e il cosmopolitismo che animavano quella stagione. Un buon motivo per fare assieme a lui il punto di una stagione molto diversa, quando sembrano essere sopravvissuti soltanto i grandi eventi moltiplicati all’infinito dai social.
«Fare un festival come il nostro oggi è più complicato – dice Grifasi, che incontriamo nella sede della fondazione Romaeuropa, elegantissima e internazionale, in un vecchia fabbrica del quartiere Testaccio – Perché le istituzioni con le quali si lavora vogliono un risultato numericamente ampio, e pure i partner commerciali.
Anche i media spingono per avere il grande nome, per costruire attenzione e renderla social. Avere degli anticorpi è importante. Che poi è la ragione per cui all’interno di Romaeuropa quest’anno trovi minirassegne di scoperta della musica italiana come Line-up a fianco di nomi dell’elettronica più consolidata come Jeff Mills o Ben Frost, che comunque non sono ancora paragonabili al grande concerto per il Circo Massimo».
Come costruisce il programma di Romaeuropa? Gli artisti li va a pescare ancora personalmente, uno per uno?
Si seguono più binari. Uno è quello della fedeltà. Akram Khan, il coreografo che questo fine settimana porta da noi il suo Libro della giungla l’avevo visto a Londra nel 2002, faceva un solo di danza kathak e con quello fu invitato a Romaeuropa, poi abbiamo seguito tutte le sue produzioni. Esiste una rete di festival internazionali, a livelli diversi. Kat Valastur, una coreografa greca che sta a Berlino viene con uno spettacolo molto complesso sulla dea Diana assieme al gruppo vocale Pleiades, ma l’avevo trovata da sconosciuta in uno spazio come la Sophiiensaele. Invece Isabelle Huppert era una produzione del teatro dell’Odeon di Parigi, il più grande d’Europa.
Romaeuropa esiste dal 1987, è una specie di vetrina di produzioni internazionali per un città come Roma che coi suoi teatri ha da anni un rapporto difficile. Non è un po’ frustrante? Non avreste sperato alla fine di generare qualcosa di più stabile?
In Europa c’è più consequenzialità nelle scelte istituzionali e politiche, perché parliamo di questo. C’è una capacità maggiore nel dare spazi e luoghi a percorsi di innovazione artistica, che poi si porteranno dietro anche un pubblico specifico. E questo vale per tutti: riuscire a progammare degli artisti più giovani vuol dire dialogare con un nuovo tipo di pubblico.
Noi invece siamo cresciuti grazie all’esistenza degli spazi occupati. O è troppo dire così?
La prima volta che abbiamo fatto Jeff Mills a Roma era il 2006, nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium dove lui sonorizzava Buster Keaton e Metropolis. La seconda volta l’abbiamo fatto al Brancaleone nel 2012, un centro sociale, che era anche il posto dove andavo a seguire le serate di elettronica. Molti degli artisti teatrali che avevamo in programma in quel periodo venivano da spazi occupati, parlo di Roma soprattutto, perché erano gli unici in cui potevano lavorare e sperimentare. Ora questi spazi, a parte qualche eccezione, non ci sono più. È un problema.
A proposito di alchimie, che ruolo ha oggi la politica, nazionale o locale, in un festival dall’organizzazione complessa come Romaeuropa?
Intanto questi sono stati anni difficili. C’è stato il Covid che ha fatto saltare completamente tutti i parametri e bisogna dire che le istituzioni hanno fatto la loro parte, perché hanno mantenuto sostegni, aperto nuove linee di finanziamento e così via. Certo l’Italia non sarà mai a livello di altri paesi europei come finanziamenti, però qualcosa è stato fatto e va riconosciuto. Dopodiché la politica a volte sconta un deficit di conoscenza e attenzione. È più interessante il concerto da 90.000 persone al Circo Massimo invece di rendersi conto che mancano spazi a Roma, che però sono i luoghi in cui si può formare una generazione non solo di artisti ma di pubblico, perché le due cose vanno sempre assieme.
Qualcosa è cambiato: prima c’erano i ministri o gli assessorati alla Cultura che sgomitavano, adesso siamo in piena “culture war” della destra al governo.
È una questione che riguarda paradossalmente i massimi sistemi, il Teatro San Carlo per esempio. Riguarda alcuni luoghi del potere culturale, e la sinistra ha avuto le sue responsabilità prima della destra in questo. Non mi sembra che riguardi la quotidianità della produzione culturale. Un tessuto diffuso di cultura aiuta la città, le sue parti più difficili, può evitare fenomeni esasperati di gentrificazione – Berlino in questo è stata un’esperienza significativa con tutti i suoi problemi. Noi abbiamo avuto un rapporto positivo con gli assessori di destra in comune, così con la regione Lazio. Poi Romaeuropa è un’istituzione particolare, dentro ci sono le ambasciate, gli istituiti di cultura internazionali e questo ovviamente aiuta.
Insisto: i centri sociali di cui parlavamo prima, e i linguaggi che lì venivano elaborati, non godono di grande popolarità presso la nuova destra.
All’interno del programma di Romaeuropa restano i nostri elementi: la diversità, l’accoglienza di estetiche lontane, l’idea di un festival nel quale le voci possano liberamente esprimersi. Quest’anno abbiamo un coreografo maori come Ponifasio che lavora sulle liriche di uno dei più grandi poeti libanesi, Adonis. Un coreografo nigeriano, Qudus Onikeku, che insegna negli Stati Uniti ma che a Lagos sta creando una dimensione di scuola internazionale. Noi pensiamo che questo non si possa discutere. Voglio pensare che queste cose siano già un patrimonio condiviso. Ricordo che a Parigi il Beaubourg l’ha fatto Pompidou, il museo delle Culture del mondo l’ha fatto Chirac, non Mitterand.
Era un altro mondo.
È vero che abbiamo avuto delle accelerazioni molto forti sui diritti e sui valori ma è anche vero che, connesse al Covid e all’insicurezza economica, queste possono provocare nelle persone fragilità e paura. Non prendere in conto questa paura vuol dire ignorare un pezzo di società che resta indietro, interi ex elettorati progressisti cancellati da questo mito della globalizzazione al quale io stesso ho partecipato. Questa parola globalizzazione mi inquieta, non la userei più.
Eppure ha fondato un’intera estetica.
Quando i Talking Heads sono venuti a suonare a Roma al palazzo dello Sport nel 1980 e hanno fatto un concerto mezzo newyorkese mezzo Lagos, avevamo già raggiunto la vetta di quell’apertura. In quegli anni la musica anticipava tutto. Io ho scelto quest’anno di fare Battiato, un concerto delle composizioni cerniera tra i primissimi anni ’70 e le cose che tutti conosciamo. L’anno scorso abbiamo fatto Philip Glass, tre ore e mezza di musica, il pubblico non si è mosso dalle sedie. Oggi tutto è calibrato su un’idea di tempo molto accelerata, l’immediatezza dei social, le dirette Instagram o Facebook. E allora torniamo all’inizio: i festival e i progetti culturali più che dei momenti di consumo devono essere dei momenti di incontro, un antidoto.
© Riproduzione riservata


