Si sta tanto parlando, in Inghilterra, di Oli London, l’influencer e personalità dei reality britannici che si è sottopost* a 18 operazioni per somigliare fisicamente alla sua star coreana del cuore. Oli ha definito queste operazioni una «chirurgia di transizione razziale», spiegando che si è sempre identificat* con una persona coreana, e in particolare con il suo idolo Park Ji-min. Si è trattato di un doppio coming out – come coreano e come persona non binaria – e per l’occasione l’influencer ha creato anche una bandiera che unisce la bandiera arcobaleno a quella coreana, spiegando che per gli ultimi otto anni della sua vita era stat* profondamente infelice e che è stato molto difficile uscirne, ma che ora si sentiva finalmente felice.

Le reazioni, quasi tutte di raccapriccio e di austero rimprovero, sono state di due tipi. Da una parte, una certa destra poco avvezza alla lettura e alla riflessione – quella fetta di fruitori di Facebook che ama commentare gli articoli sponsorizzati delle pagine di intrattenimento – ha condannato il ragazzo, in sermoni dal sapore cattolico e costellati di errori grammaticali, sostenendo che abbia un disturbo psichiatrico e che la cosa più grave è che siano stati chiusi i manicomi. Dall’altra parte, in una sinistra certo più colta ma spesso vittima di certe derive del politically correct, si condannava l’influencer e il chirurgo di turno per aver assecondato un capriccio sull’onda di un feticcio: quello della persona coreana.

Se la prima posizione non ha altri fondamenti se non l’implicita narrazione troglodita e antiscientifica della “naturalità” tanto cara alla chiesa (Oli London ha peccato, si intende, perché si è modificat* a sua somiglianza, trasgredendo al fatto che l’umano sarebbe creato a immagine di Dio), la seconda ha perlomeno uno spessore ideologico: si tratta di commenti in cui ricorrono espressioni come “appropriazione culturale” e “feticizzazione”. Ma non è quello che facciamo sempre tutti, instancabilmente, appropriarci di altre culture e feticizzare? Perché la star americana di turno in kimono disturba più del personaggio pubblico inglese con il naso rifatto secondo una fisionomia asiatica? Sarà forse che, più che con l’appropriazione culturale, abbiamo un problema con chi esercita pienamente la propria libertà?

Appropriazione culturale

Il concetto di appropriazione culturale nasce da una legittima contraddizione: l’assumere usi, abbigliamento, pettinature appartenenti a una cultura che ha subito un’oppressione, sbandierando l’elemento estetico senza problematizzare né empatizzare con la sofferenza di quelle persone. Ad esempio, è appropriazione culturale la star del cinema che sfila sul red carpet con una pettinatura appartenente alla black culture.

Ma Oli London si è appropriat* di lineamenti di una persona specifica: non sussiste feticcio culturale se non una forma estrema di dedizione che fa pensare ai personaggi dei film di Takeshi Kitano. Come il fan che si accecava, nello splendido Dolls, per poter stare accanto alla pop star sfigurata dall’incidente senza metterla a disagio, Oli London ha deciso di modificarsi per avvicinarsi a un oggetto d’amore. È una scelta affettiva, controcorrente, è il gesto di chi anziché somigliare al concetto di Dio sceglie di somigliare a un concetto più personale: sé stesso.

In questo diffuso turbamento suscitato dalle scelte di Oli London, più che questioni politiche di rapporti di potere tra culture, mi pare scorrere, inconsciamente, una certa preoccupazione sul ruolo sempre più passivo della scienza e della tecnologia nelle nostre vite: abbiamo assistito, negli ultimi decenni, a uno slittamento nei termini del rapporto tra uomo e scienza. Prima, infatti, la scienza ci sovrastava, in mano alle sue autorità che discendevano su di noi come un potere divino, dispensando verità e soluzioni. Ora invece abbiamo tutti il potere di servirci di scienza e tecnologia per esercitare sui nostri corpi la nostra libertà.

È questa libertà, i cui limiti ora sono così slabbrati e difficili da identificare (nonché da teorizzare), che viene messa in discussione inconsciamente da chi critica Oli London, per un’inconscia paura di fronte al terremoto culturale di un’era che cambia, rivelandoci l’ampiezza spaventosa e incontrollabile del nostro libero arbitrio, a cui dovremo abituarci: c’è chi lo fa cercando altri tipi di autorità, che sia divina o di un leader, e chi invece sfoga ancora il suo sgomento su una tastiera.

Qualche anno fa un altro bel film, Time del recentemente scomparso regista coreano Kim Ki Duk, raccontava una storia simile a quella di Oli. Una donna estremamente gelosa si sottoponeva a una serie di operazioni di chirurgia estetica per diventare un’altra, sedurre il fidanzato, e provare così a sé stessa che lui si potrebbe innamorare anche di un’altra. Naturalmente ci riesce, e questo, lungi dal pacificarla, la porta in una spirale di follia e autodistruzione che infine coinvolge anche il fidanzato.

Non serve leggere Barthes, infatti, per sapere che il concetto di “altro” non si può ridurre a un’apparenza fisica, e che l’amore ha un elemento di casualità riconducibile al nostro sistema di proiezioni più che a un vero “altro”: diventare “un altro” fisicamente e fare innamorare il tuo ragazzo non prova infedeltà né volubilità, anzi, al contrario, sarebbe una curiosa prova d’amore, ma l’attendibilità di una prova è ovviamente stabilita dallo scopo dell’esperimento, ed è pur vero che è scioccante assistere alla facilità di alcuni di entusiasmarsi davanti a un nuovo volto, per solitudine o solo per automatismo.

Diventare ciò che si vuole

Anche Oli London ha sperimentato sul suo corpo per poter essere un altr*, ma al contrario della protagonista nevrotica di Time non lo ha fatto per negare sé stess*, lo ha fatto al contrario per somigliare ancora di più a sé stess*. Cosa sia questo “sé stess*” – un’astrazione, un’immagine, una convinzione, o davvero solo un feticcio – è una questione che riguarda soltanto lui, e non certo le migliaia di persone che su internet si sono permesse di giudicare la sua scelta.

Ciò che ha fatto Oli London non è diverso dalle azioni di infinite ragazze che ogni anno, in tutto il mondo, si rifanno zigomi e tette e labbra per somigliare a Barbie, alla bambola perfetta e impersonale e senza un difetto: si tratta sempre di una modifica estrema secondo un feticcio, un concetto, ma allora perché in quel caso nessuno storce il naso? Perché a quel concetto – l’idea occidentale della bellezza sottile e perfetta, standardizzata – siamo tutti assuefatti, servi obbedienti di un sistema estetico-culturale.

Certo, ci si potrebbe chiedere dove ci porterà questa foga di inseguire noi stessi al di là dei limiti del corpo, ma trovo che chiederselo con insistenza sia un’operazione datata e poco creativa, più adatta a un salotto di discussione post-freudiana che a un mondo, il nostro, che finalmente si apre alla possibilità di diventare ciò che si vuole. Diversi dal proprio destino, genetico o familiare: diversi da qualunque imposizione che non coincida con i nostri desideri. Oli London è adesso una persona non binary e con i tratti più simili a quelli che sente in sé. Lo dichiara con una gioia contagiosa. Perché non vi lasciate contagiare da questa gioia, la gioia rara di chi è finalmente simile a sé, anziché sbraitare con i vostri pregiudizi ammuffiti? Chi inonda di feroci critiche Oli London è probabilmente prigioniero di un’esistenza angusta che non ha l’ardire di cambiare, incastrato in un ammasso di pensieri stantii che avrebbero bisogno di un decluttering come quello incoraggiato da Marie Kondo. D’altronde non credo che a Oli London importi qualcosa di ciò che dicono i suoi virtuali detrattori. Probabilmente è d’accordo con il protagonista maschile della serie tv The Undying, quando dice al suo bambino un po’ bullato: non è mai una buona idea prendere le misure di noi stessi attraverso gli occhi degli infelici.

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