Cominciò tutto a causa di un editor impiccione, che fece capolino nella sala marketing durante la consueta riunione annuale per le promozioni estive.

«E se regalassimo una shopper?» propose, con una vocetta melliflua.

La cosa lì per lì non convinse molto il marketing – associare le borse ai libri era un po’ confondere le mele con le pere – e invece quell’estate l’iniziativa ebbe un successo pazzesco, al punto che l’anno dopo ci provarono anche diversi altri editori. Ormai non si trattava più di associare due oggetti così diversi, ma farlo nella maniera più creativa possibile, in modo da battere l’agguerrita concorrenza.

Vennero consultati esperti di design e disegnatori di borse, nonché pubblicitari e comunicatori. Si doveva pensare all’oggetto più seduttivo possibile rispetto al target dei lettori forti, la borsa avrebbe dovuto essere lo scrigno dentro il quale venivano custoditi i libri, una specie di scaffale sartoriale, di comodino di stoffa, di biblioteca coi manici, che doveva però anche riprendere l’avventurosa leggerezza estiva, l’idea della gita al mare o in montagna, della valigia della vacanza.

A forza di dire che l’editoria era in crisi, minacciata da Netflix e dalla PlayStation e dai social network e da chissà che altro, ormai si puntava tutto a quel gran saldo estivo. La parola d’ordine era svuotare i magazzini, muovere il catalogo!

Divergenza di opinioni

C’è chi nel mondo della cultura non la prese bene, come il critico letterario Busoni, il quale in un terribile faccia a faccia televisivo (andato in onda ben dopo la mezzanotte), accusò l’editoria italiana di aver abbandonato del tutto la propensione del “progetto” per trattare i libri come saponette. A opporsi alla furia modernista del Busoni c’era l’editor mellifluo, il quale da funzionario scafato dell’editoria ribatteva colpo su colpo.

«Adesso ve la prendete con le shopper, come prima ve la prendevate coi bestseller», disse l’editor. «La verità è che se l’editoria ne azzecca qualcuna voi diventate tristi».

Busoni tornava all’attacco. «Le borse sono soltanto la punta dell’iceberg. Proprio con i bestseller voi avete fatto passare l’idea malata che se un libro vende è bello».

«Guardi che i bestseller ci sono sempre stati, non li hanno inventati gli editori cattivi di oggi. Che mi dice di Liala e Invernizio?»

«Il problema non è il libro di successo, ma il tentativo di replicarlo a ogni costo».

«Ce l’avete con il divertimento, questa è la verità! Per voi se un romanzo non è noioso non merita il canone, non merita i premi!»

«Siete voi che avete trasformato i lettori in clienti, e di conseguenza regalare borse non mi fa più né caldo né freddo!»

Rapporto uno a uno

Si era partiti con l’acquisto di tre libri per avere una borsa in regalo, ma ben presto si scese a due libri e poi a uno: il rapporto uno a uno però si dimostrò insidioso, perché a un certo punto non si capì più bene qual era l’oggetto da acquistare per ricevere il regalo, se insomma il libro precedesse la borsa o, viceversa, fosse la borsa a precedere il libro. Ci furono riunioni fiume e grandi conciliaboli al riguardo.

«Queste campagne promozionali con le borse sono un successo, inutile negarlo», diceva un commerciale zelante.

«Il fatturato nel periodo è quadruplicato, l’estate è diventata un periodo propizio, sembra Natale!», diceva un altro commerciale zelante.

L’amministratore delegato della casa editrice si strofinava le mani. «E tutto questo grazie al gadget?»

«Sì, su questo non ci sono dubbi, è grazie al gadget», gli rispondevano zelanti. «La vera domanda però è un’altra: tra il libro e la borsa qual è il gadget?»

L’amministratore delegato della casa editrice allora smetteva di strofinarsi le mani e sbiancava. «Come qual è il gadget? Non possono mica esserci dubbi, noi stampiamo libri!»

I commerciali zelanti non ribattevano, anche se si vedeva che erano tutti dell’avviso opposto. Ma quella cosa, quell’inversione diabolica, pareva troppo anche a loro, e nessuno osava affermarla. Fu proprio l’editor mellifluo al quale era venuta l’idea iniziale invece che parlò all’amministratore delegato in modo diretto.

«Seguo questa cosa delle shopper dall’inizio, lo sai, è stata una mia genialata», disse convinto. «Se vendessimo le borse invece dei libri moltiplicheremmo i margini di guadagno annuali».

«Vuoi dire che se vendessimo le borse saremmo un’azienda sana?»

«In meno di tre anni. Via crisi, via preoccupazioni».

«Davvero?»

«E poi vuoi mettere fare le borse anziché i libri? Via i correttori di bozze, i traduttori, gli editor, tutti questi pulciari!»

L’amministratore delegato lo guardò con tenerezza. «Ti vorrei ricordare che tu qui dentro ricopri l’incarico di responsabile della narrativa italiana, sei il capo degli editor».

L’editor sorrise mellifluo. «Ho fatto l’Accademia di Belle Arti e il mio sogno è sempre stato quello di lavorare nella haute couture. Sono finito dentro questa casa editrice grazie a una raccomandazione sbagliata».

Con un po’ di riluttanza, la casa editrice si riconvertì in una fabbrica tessile specializzata in borse e bisogna dire che, anche grazie all’esperienza maturata nelle promozioni libresche di un tempo, gli affari andarono a gonfie vele. La scrittura – e la cultura umanistica – venne mantenuta come tratto distintivo dell’azienda. Su tutte le borse venivano stampate citazioni dai classici. Il brand aziendale era precisamente una rivendicazione delle origini editoriali, naturalmente in chiave snobistica: vuoi mettere le borse concepite da una ex casa editrice con le borse partorite da semplici bottegai? Per la fidelizzazione vennero inventate intere serie di borse dedicate ai grandi classici, che potevano e dovevano essere acquistate in stock o in serie per acquistare un senso (letteralmente). Quante borse si sarebbero potute fare con la Recherche di Proust?

Mulini a vento

Un giorno l’editor mellifluo incrociò per strada il critico letterario Busoni, e i due si salutarono cordialmente. Erano lontani i tempi delle loro leggendarie liti circa il destino della letteratura. Busoni informò l’editor, non senza qualche impaccio, che ormai aveva abbandonato l’università a favore della televisione, dove conduceva un talk molto seguito di politica e costume.

«Dimmi la verità», gli fece sardonico l’editor. «Se quelli della tv te lo chiedessero, ti presteresti anche a una televendita».

A Busoni per un attimo s’infiammarono gli occhi con l’antica intransigenza accademica, ma si trattò di una vampata di fuoco brevissima. Poi, suo malgrado, si nascose dentro un sorriso rammollito. «Non si può lottare tutta la vita contro i mulini a vento, caro mio».

«Tutto sommato io credo che si possano formare coscienze anche conducendo un talk show».

Busoni a quell’affermazione assolutoria e un poco paracula scoppiò in una risata mastodontica. «Io credo proprio di no. Tu vendevi libri e adesso vendi borse. Io vendevo sapere e adesso vendo intrattenimento».

Alla fine, più per noia che per reali esigenze commerciali, nell’ex casa editrice venne indetta una riunione per lanciare qualche promozione estiva. Le idee languivano, finché prese la parola il solito editor mellifluo.

«Si potrebbe fare una cosa simpatica, a costo praticamente nullo», buttò là. «Per ogni tot di spesa, regaliamo un libro».

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