Su Andrea Pirlo domina un non detto: accennato, alluso, mai indicato apertamente. Farlo notare è di cattivo gusto. Scherzarci su, forse un po’ volgare. Il pregiudizio su Andrea Pirlo – conviene dirlo subito – è sostanzialmente lombrosiano: gli occhi sempre a mezz’asta come in un principio di addormentamento; la lentezza flemmatica nei movimenti e nelle reazioni; la voce nasale e monocorde; il taglio di capelli da composta borghesia bresciana, sempre uguale da inizio carriera; l’apparente imperturbabilità.

Di imperturbabile la Juventus ne aveva già avuto uno di recente, Mario Mandzukic. Il marketing ci aveva scherzato su, con una campagna in cui un medico cercava di commuoverlo mostrandogli immagini di koala, gattini, neonati: niente, l’esperimento falliva, Mario Manduzkic rimaneva glaciale sotto l’egida del suo personale hashtag da guerriero #nogood. L’imperturbabilità di Mandzukic era coriacea, soldatesca, antiemotiva. Quella di Andrea Pirlo è di un altro tipo: rallentata, antiempatica, dominata da una specie di buddhistico distacco. L’ha rilevato Mario Sconcerti commentando la sua fresca nomina a ct della prima squadra della Juventus: «Pirlo ha un carattere molto introverso, silenzioso. Mi ricordo tre-quattro interviste che gli ho fatto, era una vera sofferenza, non gli tiravi fuori nulla. Credo che a Pirlo gli altri interessino poco. Certi campioni sono così. Non l’ho mai visto incazzato. Non vedo traccia di fanatismo».

È il dubbio che hanno in tanti: è vero che il carisma di un commissario tecnico non consiste in ruggiti, bestemmie, giacche scagliate a terra o sofistiche esibizioni oratorie, ma quanto potrà essere efficace un allenatore che, da calciatore, nessuno ha mai visto neanche alzare la voce?

«Un predestinato»: più d’uno ha usato questo termine per commentare la salita di Pirlo sulla panchina più prestigiosa del campionato italiano. L’ha detto Fabio Paratici, direttore sportivo della Juventus; l’ha detto Adriano Galliani, ex amministratore delegato di quel Milan in cui Pirlo da giocatore ha vinto tutto; l’ha detto Cesare Prandelli, che per quattro anni l’ha allenato in nazionale: «Ha la capacità di interpretare ciò che succede in campo. Lo capiva prima degli altri. Vedeva gli smarcamenti, tutti i movimenti della squadra. Per intuizione e conoscenza lui era un tecnico già da giocatore».

Pirlo allenatore, è ovvio, si tende a immaginarlo come un’estensione del Pirlo giocatore. È successo di recente anche con Gattuso, le cui squadre le si vuole grintose, indomabili, feroci. Con Pirlo questo criterio trova una ragione in più: Pirlo, come dice Prandelli, era un tecnico già da calciatore. Si può dire anzi che Pirlo, da calciatore, ha saputo introdurre una nuova nozione di giocatore, talmente originale e specifico da farlo sostanzialmente coincidere con sé stesso. Un calciatore capace di avere dall’interno del campo una visione possibile forse solo dall’alto: una visione tattica onnipresente e complessiva. Sostanzialmente, Pirlo ha inventato per sé stesso la funzione di “calciatore allenatore”. Un cervello tattico in mezzo al campo. Questo è stato Andrea Pirlo, per cui più che a chiunque calza bene il termine “regista”: una funzione teatrale e cinematografica il cui primo compito è quello di sintetizzare tutti i movimenti, i transiti, le situazioni; trasformare un disordine illeggibile in un disegno intelligente.

D’altronde, la storia di Pirlo è quella di un «predestinato» fin dall’inizio. Esordisce giovanissimo, diciannovenne, nella squadra della sua città, Brescia. Lombardo, ordinato, privo di sregolatezze biografiche ed estetiche – l’unica, recentissima, una barba lunga in ossequio ai tempi. Per il resto: niente macchine di lusso distrutte, niente notti brave, niente risse, niente uscite di testa. È uno fra i migliori giovani di belle speranze della sua generazione: viene infatti subito ceduto all’Inter. Ma la sua collocazione tattica è un problema che Marcello Lippi, allora commissario tecnico dei nerazzurri, non riesce a risolvere: Pirlo gioca da trequartista, ma è troppo lento, troppo macchinoso. Viene ceduto in prova alla Reggina. A Reggio, peraltro, conosce Roberto Baronio, amico di una vita, che ora gli fa da secondo sulla panchina della Juve. La sua è una buona stagione, che gli guadagna il ritorno all’Inter, ma non la permanenza, giacché viene immediatamente rigirato al Brescia, sulla cui panchina siede ora Carletto Mazzone. Proprio a Mazzone si deve l’invenzione del giocatore così come l’abbiamo conosciuto: non sapendo come risolvere il problema di un giocatore estremamente tecnico ma non abbastanza veloce per gli ultimi trenta metri, lo sposta venti metri indietro.

«Venti metri indietro» potrebbe essere lo slogan che testimonia la svolta della carriera di Andrea Pirlo. Oggi lo definiremmo un classico caso di resilienza. La proverbiale lentezza di Pirlo diventa in questo ruolo anche la prima delle sue qualità: da distributore di gioco, quel “secondo in più” funziona da spezzatura, da contrappunto – la palla a Pirlo diventa, all’interno del flusso agonistico, il momento del pensiero. Fra qualche anno uno dei suoi soprannomi diventerà quello di «metronomo». Sarà anche lento, ma in campo è lui a dare il tempo.

Al termine della stagione, ritorna ancora all’Inter, in quello che si prefigura come una specie di purgatoriale andirivieni. Non fosse però che Carlo Ancelotti, tecnico del Milan, ha già messo gli occhi su di lui. Lo segue da tempo. Il caso vuole che in quel momento Gattuso e Massimo Ambrosini siano infortunati: così Ancelotti chiede e ottiene Andrea Pirlo in cambio di Dražen Brnčić. È uno degli episodi di calciomercato cittadino più canzonati alle vigilie dei derby meneghini: Brnčić colleziona in nerazzurro ben zero presenze e verrà rapidamente ceduto all’Ancona; Pirlo in rossonero diventa pilastro di un Milan capace di vincere, in un decennio, due Champions league, una Coppa del mondo per club, due scudetti, due Supercoppe europee, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana. Sua unica passione dionisiaca: gli scherzi. Pare che una volta abbia rubato il cellulare di Gattuso e mandato da lì un sms all’allora direttore sportivo del Milan, Ariedo Braida: «Se mi dai quello che voglio, ti lascio mia sorella». Gattuso l’ha inseguito per mezza Milanello.

Il resto è storia nota: finito lo straordinario ciclo rossonero, il Milan – all’inizio di un lungo travaglio societario – non gli rinnova il contratto, ritenendolo un giocatore ormai sul viale del tramonto. Viene ingaggiato a parametro zero dalla nuova Juventus di Antonio Conte. Al comando del centrocampo bianconero Pirlo vince quattro scudetti, una Coppa Italia e due Supercoppe italiane. Sempre da regista silenzioso, davanti alla difesa, con due uomini ai lati a permettergli di dirigere l’orchestra senza pressioni: prima Seedorf e Gattuso, poi Pogba e Vidal. Ha segnato settantadue gol in carriera, di cui ventotto su punizione: un record in seria A, che condivide con Sinisa Mihajlovic. È considerato, all’unanimità, uno fra i migliori centrocampisti della storia. «Il calcio», ha detto Cruijff parlando di Pirlo, «si gioca con la testa. Se non hai la testa, le gambe da sole non bastano».

Il ruolo del regista si può dire che sia nato con Andrea Pirlo. Forse il primo ruolo a cui viene concesso quello che prima era permesso solo al trequartista, al fantasista, ai numeri 10: il lusso della fantasia, il privilegio dell’estro personale. È forse il primo non attaccante a cui si chiede il beneficio del dubbio, la sospensione del giudizio, l’esibizione della personalità soggettiva. A Pirlo si inizia a chiedere il segreto mistero del calcio: l’imprevisto. In un ruolo dove normalmente un giocatore veniva misurato dal numero di palloni recuperati e giudicato in base all’efficacia della propria funzione, Pirlo si pone esattamente nel criterio opposto: lui deve fare quelle cose che nessuno si aspetta che avvengano. Perlomeno non lì, non così. Una fantasia però di un’altra qualità: cerebrale, geometrica, priva di potenza. La sua giocata più celebre e rivista – l’assist per Fabio Grosso contro la Germania ai Mondiali 2006 – ne è un esempio perfetto. Un varco di pochi centimetri, invisibile a tutti, aperto solo in un infinitesimale frammento di tempo. Una smagliatura momentanea – «l’anello che non tiene», direbbe Eugenio Montale, impossibile a vedersi in movimento, in mezzo alla mischia, dentro gli eventi. Impossibile per chiunque se non per chi possiede, appunto, un sovrumano distacco, come se vedesse le cose da un punto di vista più freddo e generale. Quel passaggio trova una traiettoria che conduce all’epica, alla liberazione. Si può rivedere all’infinito quel gesto tecnico senza stancarsi mai, anzi sempre con una certa emozione che ogni anno che passa avvicina alla nostalgia. È l’emozione di ritrovare, nel marasma scomposto di una vicenda, la luce di un atto perfettamente razionale, quel contatto fra tecnica e grazia di cui si parla quando si parla d’arte. Così come appartiene all’arte il culmine dell’efficienza, la perfetta esattezza del congegno. L’espressione matematica più “elegante” – lo ha scritto anche Chiara Valerio – è spesso quella più sintetica. Il percorso più breve fra due punti è la cosa più semplice e impossibile del mondo: e quando si manifesta è bellezza pura, un disegno tanto ovvio quanto inafferrabile prima di accadere. La capacità di sintesi, si sa, genera gratitudine.

Penso quindi gioco s’intitola il libro che Pirlo ha pubblicato con Alessandro Alciato: un libro più appassionante di quanto di solito siano questo genere di libri. Certo colpisce il riferimento già nel titolo al cogito cartesiano: niente di più calzante. Se c’è stato un giocatore cartesiano, quello è Andrea Pirlo. Lucidità, nitidezza, la capacità di riportare, senza sforzo apparente, la complessità ai suoi termini essenziali. Nella sua lenta impenetrabilità, Pirlo è uno tra i maggiori rivoluzionari del linguaggio calcistico: uno dei pochi capace di comporre una nuova grammatica tattica. Senza mai alzare la voce, si è conquistato un’autorevolezza indiscutibile.

Due sono i “rigori a cucchiaio” più famosi dei tempi recenti. Entrambi calciati in una gara della nazionale italiana. Uno è quello di Francesco Totti contro l’Olanda nella semifinale degli Europei del 2000. «Mo je faccio er cucchiaio», disse il Pupone ai compagni prima di andare sul dischetto. Pensavano scherzasse: lo fece davvero. L’altro è quello di Andrea Pirlo contro l’Inghilterra ai quarti di finale degli Europei 2012. Sono due cucchiai molto diversi. Quello di Totti è spensierato, dissennato, irridente. Quello di Pirlo è freddo, autoritario, quasi violento. È la brutale messa in campo di una superiorità psicologica. La stessa che creava, intorno alle sue punizioni dal limite dell’area, quasi la stessa aspettativa di un calcio di rigore: Pirlo calciava con freddezza chirurgica, senza sentire pressione. Il vuoto pneumatico dello stadio intorno prima di calciare non lo disturbava, perché il vuoto intorno ce l’aveva già prima: una sovrumana, inafferrabile capacità di distacco.

In finale contro la Francia nei Mondiali 2006, prima dell’ultimo rigore chiese a Fabio Cannavaro: «Se segna Grosso siamo campioni del mondo?». È un’incredulità che mi fa tenerezza, perché fa lampeggiare il suo ultramondano straniamento. «Sì Andrea» gli rispose Cannavaro. Grosso effettivamente segnò. Pirlo corse a esultare insieme agli altri. Se riguardo quelle immagini, ho sempre l’impressione che ci sia un fondo di recita. Una felicità difficile, il tentativo di vincere una lontananza, come un malinconico che si costringe ai gesti della gioia.

© Riproduzione riservata