Il libro di Isaiah Berlin su Marx nacque da una circostanza occasionale e non da un interesse specifico per Marx stesso o per il marxismo. Michael Ignatieff scrive che Berlin non sapeva quasi nulla sull’argomento e che detestava quell’orientamento filosofico «tanto quanto ci si sarebbe potuto aspettare da chiunque fosse fuggito dalla rivoluzione di ottobre».

Nel 1933 lo storico H. A. L. Fisher aveva proposto di scrivere una introduzione a Marx a Sidney e Beatrice Webb, a Harold Laski e ad altri studiosi, che non si erano dimostrati disponibili. Decise quindi di rivolgersi a Berlin, che aveva allora 24 anni. Il giovane filosofo si era formato a Oxford nel clima del pensiero analitico e la scelta di accogliere l’invito di Fisher gli consentì di esplorare un mondo rispetto al quale si era sentito fino a quel momento estraneo.

Il libro fu pronto quattro anni dopo, e dovette essere ridotto, perché la sua mole apparve poco adatta alle finalità divulgative della collana della Home University Library cui era destinato. Fu pubblicato così nel 1939. Da allora, fino al 1977, ha avuto quattro edizioni. La traduzione italiana della quarta edizione fu pubblicata da La Nuova Italia nel 1994.

Adelphi pubblica adesso la quinta edizione di questa monografia, curata da Henry Hardy, che ha raccolto in questi anni, in svariati volumi, i saggi sparsi di Berlin, filosofo, come è noto, poco incline alle convenzioni che caratterizzano la produzione scientifica accademica. Il libro su Marx, per il suo carattere monografico, rappresenta infatti un’eccezione nel panorama dei suoi scritti.

Dottrina hegeliana

Nelle prime righe Berlin scrive che nessun pensatore del XIX secolo ha avuto un’influenza così diretta e profonda sull’umanità come Marx, che non divenne mai, però, una figura popolare. Non ebbe infatti, a suo avviso, l’ingegno pubblicistico di Herzen o l’eloquenza di Bakunin. Non riuscì inoltre a suscitare mai quella venerazione che circondava Mazzini o Kossuth. Molti suoi discepoli lo consideravano un «maestro tedesco dogmatico e pedante, sempre pronto a ripetere le sue tesi all’infinito, con crescente precisione, pur d’inculcarne loro durevolmente l’essenza».

Berlin attribuisce un grande peso alle opere di Marx pubblicate dopo la sua morte, come i Manoscritti economico-filosofici del 1844 o L’ideologia tedesca, conosciuta solo parzialmente durante la sua vita. In questi lavori emerge, a suo avviso, una rielaborazione originale di temi hegeliani che i suoi seguaci, compresi i rivoluzionari russi, trascurarono per privilegiare gli aspetti economici su quelli filosofici. Berlin fa risalire a questa tendenza l’interpretazione del suo pensiero in chiave darwiniana e positivista, prevalente in Kautsky, Plechanov e, particolarmente, in Engels.

Nei Manoscritti e nell’Ideologia ci si trova dinnanzi a una dottrina che Berlin definisce «rigorosamente hegeliana», riconoscendo però che Marx, seguendo il cammino indicato da Feuerbach, accusa di mistificazione l’idealismo hegeliano, e coniuga dialettica e materialismo storico.

Un hegeliano può infatti ricondurre il principio del reale «all’azione non osservabile di un’impalpabile sostanza del mondo, senza timore di essere confutato», come il cristiano può ricondurre tutto all’azione di Dio, «ma solo a patto di non fornire alcuna spiegazione, di affermare che la risposta è un mistero empiricamente impenetrabile». Accostarsi al conoscibile facendo ricorso all’inconoscibile significa, per Berlin, sottrarre con una mano ciò che si finge di dare con l’altra. Le soluzioni proposte dalla sinistra hegeliana a questi problemi, dopo aver posto in luce i limiti del Maestro, rischiavano però di perdersi in «generalizzazioni astratte». Se, infatti, vogliamo comprendere i principi del divenire storico, «dobbiamo cercarli solo in un campo dove sia possibile effettuare un’indagine scientifica, cioè empirica».  

Marx adotta il metodo dialettico per leggere le dinamiche sociali, considerando l’agire degli uomini in funzione delle relazioni economiche che fra loro si stabiliscono e del conflitto di classe che necessariamente ne deriva. La dialettica hegeliana si identifica col processo di autocomprensione dell’Idea che torna a sé come Spirito. Marx coglie invece il significato profondo della dialettica nella lotta di classe, intesa non come un principio eterno, scrive Berlin, ma come una categoria storica, che si configura in modi diversi nel corso del tempo.

Rifiuto del determinismo

L’elemento deterministico, al di là delle interpretazioni positivistiche, fu ben presente tuttavia nel pensiero di Marx. Nel breve saggio Il mio itinerario intellettuale, Berlin ribadisce la sua distanza dal determinismo, citando un’espressione di Herzen che esprime tutto lo spirito della sua ricerca. «Dov’è la canzone prima che venga cantata?» – scriveva Herzen – «in nessun posto». Allo stesso modo, commentava egli stesso, «la vita è creata da coloro che la vivono, un passo dopo l’altro».

La vita individuale, dunque, così come la storia, è senza spartito. Herzen criticava dunque ogni pretesa di dimostrare un ordine razionale, al punto da affermare che la storia stessa può essere considerata come «l’autobiografia di un pazzo».

In Il riccio e la volpe la figura di Herzen, quasi un alter ego di Berlin, rappresenta l’elemento liberale in un contesto rivoluzionario, dominato da quelle ideologie che sarebbero confluite nel progetto totalitario. Se la storia non segue un copione, non si può allora «giustificare l’oppressione di oggi con la promessa della libertà di domani, sostenendo che quella libertà è obbiettivamente garantita, poiché ciò significa usare un inganno perfido e crudele come pretesto per azioni inique». Parole, queste di Herzen, che potrebbero essere di Berlin.

L’ambivalenza fra la naturale evoluzione storica, che condurrà al trionfo del proletariato, e il «credo libertario» costituiscono una contraddizione dialettica che tormentò i seguaci di Marx, «specialmente nell’Europa orientale, dove influì in modo decisivo sulla prassi rivoluzionaria». Berlin non poteva non apprezzare il fatto che l’attenzione di Marx ai dati empirici e alle condizioni materiali degli uomini aveva pienamente sottratto il suo pensiero alla dimensione rarefatta del sistema hegeliano, ma non poteva, al tempo stesso, condividere quella reductio ad unum che, in forme diverse, è presente tanto in Hegel quanto in Marx.

Tono rivoluzionario

Nel 1863, in occasione della grande esposizione dell’industria moderna, a Londra, avvenne un incontro fra sindacalisti francesi e inglesi a cui parteciparono anche rappresentanti di vari movimenti democratici europei.

Gli artigiani tedeschi di Londra scelsero di essere rappresentati da Marx, il quale, insoddisfatto dei documenti che le delegazioni stavano producendo, decise di scrivere lui stesso l’indirizzo inaugurale. Il documento, che nella formulazione della commissione internazionale era orientato in senso liberale e democratico, assunse, dopo l’intervento di Marx, un tono rivoluzionario. Si delineava così il profilo di un movimento che avrebbe dovuto proporsi, scrive Berlin, «il sovvertimento, e, quando fosse possibile, il rovesciamento del sistema capitalistico esistente mediante una aperta azione politica».

Berlin considera questo discorso inaugurale di Marx come «il più importante documento del movimento socialista dopo il Manifesto». Nelle parole di esordio si legge che «l’emancipazione economica della classe operaia è il grande scopo cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico».

Secondo questa concezione la storia è orientata verso una meta, in cui le contraddizioni saranno superate. Se la storia è determinata e il trionfo del proletariato si realizzerà necessariamente, il compito del filosofo, per Marx, consiste nel precisare questa verità, scrive Berlin, «e nel preparare le masse al loro destino».

La critica di Berlin

Berlin individua, nel libro giovanile su Marx, quella forma di monismo che criticherà poi in tutti i suoi saggi successivi. Nella sua concezione pluralistica dei valori, Berlin ritiene che gli ideali sono spesso in conflitto e la mediazione tra visioni del mondo differenti non può mai condurre a una sintesi compiuta. Pretendere che ciò accada significa incamminarsi verso scelte totalitarie, in cui la pluralità è ridotta al silenzio.     

Nel XIX secolo, scrive Berlin, vi furono dei rivoluzionari «non meno originali, non meno violenti, non meno dogmatici di Marx; ma nessuno di loro fu, come Marx, dominato in modo così rigoroso da un solo pensiero». Pur ammettendo però che il suo sistema intellettuale, anche se rigido, si fondava sull’osservazione e sull’esperienza, riconosce in lui i tratti di un antico profeta che adempie una missione celeste, animato da una incrollabile fiducia nella società armoniosa del futuro che, descrivendo il decadimento del suo tempo, non sentiva lontana.

Berlin avrebbe sicuramente condiviso il giudizio di Benedetto Croce, secondo il quale, al di là del profetismo teologico, il materialismo storico non deve intendersi come filosofia della storia, ma come una somma «di nuove esperienze che entrano nella coscienza dello storico», «un buon paio di occhiali» che può consentire al miope di scorgere i contorni precisi di «tante ombre incerte».

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