Giorgio Amitrano è lo storico, primo traduttore italiano dell’autore di Norvegian Wood, inizialmente in libreria con il titolo Tokyo Blues: passò inosservato. «Non siamo diventati amici. I nostri incontri non sono stati così numerosi. E poi aveva sempre dietro la moglie, severa e distaccata. Conosce invece benissimo la letteratura americana e inglese. Il suo autore preferito è Fitzgerald»
La casa era sulla verde e sinuosa montagnola del quartiere Monte Mario. Da lì Murakami Haruki, come egli stesso indica nella nota introduttiva al suo romanzo-icona, Norvegian Wood, osservava il fiume e lo stadio: «Il residence si trovava su una collina e dalla finestra, guardando in basso, si poteva vedere il corso serpeggiante del Tevere e un grande campo di calcio». L’Olimpico, certo.
Nel 1986, quando lo scrittore giapponese si trasferì per un lungo periodo a Roma venendo dalla Sicilia e, in precedenza, da una piccola isola della Grecia, era ancora la vecchia arena della Lazio e della Roma, delle cicche, dei caffè, delle radioline su Tutto il Calcio, senza la grande tensostruttura bianca che oggi lo copre, e tutto il cemento armato e le curve che in vista dei Mondiali del 1990 furono avvicinate al rettangolo di gioco in erba limpida.
«Ricordo, durante le partite, una nuvola bianca che galleggiava bassa nel cielo sopra il campo – scrive Murakami –. Quando non c’era vento, dalle persone che fumavano sigarette si levava, come lo spirito di un popolo, una bella nuvola», mentre da laggiù gli arrivavano anche «fievolmente le urla di gioia, e forse di rabbia».
La casa romana
Lui e Giorgio Amitrano non hanno mai parlato di quella abitazione dove la maggior parte di quel capolavoro fu concepito, e del perché quella vista lo abbia ispirato. «Sarebbe stato interessante. E anche divertente cercarla. Mi avevano detto al quartiere Prenestino, ma evidentemente si sbagliavano», sussurra, sistemando i libri della piccola biblioteca all’interno di un elegante caffè di Piazza Dante. Un’escursione vagheggiata, da ago nel pagliaio senza riferimenti.
Neanche all’istituto di Cultura giapponese ne sanno qualcosa. «Occorrerebbe tuttavia troppo tempo, e io ormai quasi non dormo più, sfrutto anche i secondi per lavorare. Perdoni anche se le ho chiesto di vederci qui, la mia casa è molto in disordine», si scusa, filettando i volumi, chiarendo che è più forte di lui dare una sistemata.
Non solo Murakami
Giorgio Amitrano è lo storico, primo traduttore italiano di Murakami Haruki («sì, si scrive prima il cognome», precisa, sorridendo), autore che ha conquistato i lettori di mezzo mondo, e certamente influenzato la letteratura contemporanea, quello per cui a ogni uscita si sta un po’ col fiato sospeso nell’attesa di conoscere quale altro prodigio avrà tirato fuori.
Norwegian Wood – tradotto da Amitrano prima per Feltrinelli col titolo di Tokyo Blues («non andò bene, a un certo punto le copie del primissimo libro andarono al macero, anche se poi ristampato in edizione tascabile divenne un long seller da centoventimila copie in poco tempo, dunque uno strano destino», rivela, e poi la definitiva versione per Einaudi) – Dance Dance Dance, La ragazza dello sputnik, Tutti i figli di Dio danzano, Kafka sulla spiaggia («è con questo romanzo che scoppiò definitivamente il fenomeno», spiega), 1Q84.
Ma non soltanto Murakami. Anche i vati della letteratura del Sol Levante Mhisima e Kawabata, o lo stesso Inoue. E, in prima assoluta, anticipandone il successo mondiale, Kitchen. Da Yoshimoto Banana proprio qualche settimana fa ha ricevuto un «magico pacchetto». Dentro c’era il suo ultimo romanzo. Una sorpresa anche nel titolo, Yoshimotōno, «un gioco di parole tra il cognome della scrittrice e il Tōno monogatari di Yanagita Kunio (morto nel 1962, considerato il padre degli studi sul folclore giapponese, ndr), ma renderlo in qualsiasi lingua sarebbe un rompicapo. Intanto posso dire che mi sembra già bellissimo», confida Amitrano, che con Banana ha un legame strettissimo («ci sentiamo e vediamo spesso, ho visto nascere i suoi figli»).
Con Haruki, al contrario, non è mai nata un’amicizia. «È andata così – si rammarica –, né i nostri incontri sono stati così numerosi. E poi aveva sempre dietro la moglie, severa e distaccata…».
Il personaggio e il mito
Giorgio Amitrano è titolare della cattedra di Lingua, cultura e letteratura giapponese all’Orientale di Napoli, e per quattro anni è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo. Dove è volato qualche giorno fa per una conferenza, unico esponente di una università occidentale, al 14esimo simposio internazionale della Società di Studi su Murakami Haruki e dal tema Partnership.
Al centro del suo intervento, il contrasto tra due elementi a prima vista opposti: «L’immagine di Murakami introverso e solitario – spiega – e la ricchezza dei rapporti che intrattiene con gli illustratori dei suoi libri, con altri che come lui sono scrittori-traduttori, e i progetti realizzati in tandem, come la sua raccolta di conversazioni con il direttore d’orchestra Seiji Ozawa, Assolutamente musica».
Anche questo fa parte dell’universo, e del mito, Murakami. Quel bizzarro marzo romano – «c’era un clima terribilmente strano… o forse ero io…», scrive il romanziere giapponese in quella introduzione – vide Haruki immerso, «senza quasi pensare ad altro», nel grande flashback dell’antieroe Toru, il giovane protagonista che nell’incipit vediamo atterrare ad Amsterdam a bordo di un Boeing 747 con sottofondo orchestrale annacquato di Norwegian Wood dei Beatles, appunto, e su quelle note-madeleine intraprendere un doloroso e malinconico cammino d’amore a ritroso.
«Ci misi alcuni mesi per tradurlo», dice Amitrano. «Per una parola, o una sola virgola, non dormivo. Oppure se mi arrivava l’illuminazione mi alzavo immediatamente», ricorda. L’immagine, in una sorta di sovrapposizione temporale cinematografica, è attraente: Murakami scrive Norwegian Wood nel suo appartamento a Monte Mario, Amitrano lo traduce nella sua “Casa dei libri”. Fu un’amica architetta giapponese a progettarla, e a chiamarla così. «Troppi. Però non amo averne sul comodino», sorride lieve, composto, nipponizzato nella postura, finanche quasi gli occhi a mandorla.
Murakami, erede di una tradizione letteraria finissima e potente, da Mishima Yukio, autore di romanzi “epici” come Confessioni di una maschera o Trastulli di animali, celebre anche per il suo harakiri dopo il fallito tentativo di golpe di fine febbraio del ’36 da lui architettato contro l’americanizzazione del Giappone, a Kawabata Yasunari, Bellezza e tristezza, tra tutti, Amitrano suo grande traduttore, argonauta tra Est e Ovest in lungo viaggio nella grande letteratura. E sempre tra pop e sublime.
Fu amico di Cesare Garboli, «amatissimo maestro». A Tokyo ha organizzato in questi giorni anche un workshop per il centenario “prolungato” di Italo Calvino, riportandolo «in una città che ha particolarmente amato», commenta. «Se Murakami conosce i classici italiani? No…», risponde, spiegando come, pur essendo un uomo coltissimo, questa parte manca. «Conosce invece benissimo la letteratura americana e inglese. Il suo autore preferito è Fitzgerald, che ha tradotto molto».
Nel 2002 Il giovane Holden fu un caso letterario in Giappone, a settant’anni dalla sua uscita, e famosissimo, Murakami lo resuscitò e con esso il suo autore, Salinger. Avrà fatto anche lui qualche “salto”, come lo definisce Amitrano, nella traduzione dall’inglese. Ma l’importante è «trovare soluzioni, fare il massimo per rendere quello che l’autore ha scritto».
I racconti nei cassetti
La traduzione per Giorgio Amitrano è una passione. Ed è un’ossessione anche notturna. Quel talento proruppe ai tempi dell’università, quando per la tesi lavorò sui racconti di un autore di letteratura fantastica della prima metà del ‘900: il titolo era La metamorfosi come metafora letteraria nell’opera di Nakagima Azishi. Umani che si trasformano in tigri, e altre visioni simili. Profetico del nostro tempo, affollato da uomini-tigre. Figlio di due insegnanti, nato a Jesi ma con sangue napoletano, Giorgio Amitrano si descrive come «un partenopeo riuscito male, che si sente più a suo agio in Giappone». Da ragazzo incontrò una Oriana Fallaci in vena di oracoli. «Le dissi che avrei voluto fare lo scrittore – ricorda –, mi sconsigliò animatamente. Poi firmò la copia di un suo libro così: a Giorgio, futuro romanziere».
Chissà se leggeremo qualcuno dei suoi racconti. «Un editore importante mi esortò a proseguire sul materiale che inviai. A un certo punto interruppi di scrivere. Ma sono lì, non si sa mai», confida, con pudore, sorvolando. Schivo, raccolto. In stile Murakami.
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