A quanto pare addentrandosi nel deserto dello Utah si possono fare delle strane scoperte. La più recente risale 22 novembre e a farla è stata una squadra della Utah Wildlife Agency che, volando a bassa quota per monitorare i mufloni presenti in un’area impervia tra i canyon di Red Rock Country, ha scoperto un misterioso «monolite» alto circa tre metri con una base triangolare di 60 centimetri per lato. Sì, un monolite, così il misterioso oggetto è stato chiamato dal New York Times, e non solo, nei diversi articoli dedicati alla sua comparsa. Eppure non si tratta di un blocco di pietra, ma di un solido cavo in acciaio. Ma vuoi mettere il potere evocativo della parola «monolite»? Nulla di meglio per suggerire interpretazioni fantascientifiche e creare un’associazione con il grande parallelepipedo di pietra di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

La precisazione però che a tenere unite le facce del misterioso oggetto sono dei rivetti prodotti dall’uomo sottintendeva che non si tratta di un oggetto proveniente dallo spazio. Nessuna presenza extraterrestre, dunque. A realizzare quel coso e a piantarlo nel terreno roccioso, è stato subito detto, potrebbe essere stato un artista.

La notizia della scoperta, data ufficialmente dallo Utah Department of Public Safety e subito ripresa dal New York Times, è stata rilanciata nel mondo dell’arte da The Newspaper of Art e da Hyperallergic, che hanno avanzato l’ipotesi che potesse trattarsi di una scultura di un artista minimalista. Viene così fatto il nome di John McCracken, morto nel 2011 e vissuto per qualche tempo nel New Mexico.

Contestualmente il Guardian dà notizia che un portavoce della galleria David Zwirner, che rappresenta l’estate (la gestione artistica dell’eredità) di McCracken, escludeva questa ipotesi. Il giorno successivo però è David Zwirner in persona a dichiarare al New York Times che, nonostante le opinioni contrastanti in galleria, è sicuro si tratti di una scultura di McCracken.

Di lì a poco è un susseguirsi di dichiarazioni: Patrick, figlio dell’artista, sostiene in un primo momento di avere dei dubbi sul fatto che sia una scultura del padre, ma poco dopo racconterà che molti anni prima il padre gli aveva confidato che gli sarebbe piaciuto lasciare una sua opera in un luogo remoto, che un giorno qualcuno avrebbe potuto scoprire. Questo acconto ha lasciato perplesso il pittore Ed Ruscha, che ha frequentato a lungo McCracken. Ruscha ha escluso che potesse trattarsi di un’opera dell’amico, sia perché una cosa del genere non era da lui sia per la fattura dozzinale dell’oggetto. «Mi piace pensare che qualcuno si stia divertendo» ha detto. È dello stesso parere James Hayward, anche lui artista, che di McCracken è stato assistente. «Questa faccenda è un’enorme burla».

L’incalzare di notizie e commenti concorre a rendere la scoperta un evento mediatico che, comunque vada, avrà tra i suoi effetti quello di arricchire la letteratura dell’artista, renderlo più noto di quanto non sia già e, con molta probabilità, accrescere l’interesse dei collezionisti. La narrazione sembrava aver toccato il suo culmine sabato 23 febbraio, quando il New York Times, rendendo noto che il «monolite» era misteriosamente scomparso, dedicava alla faccenda ben due pagine. Chi e come lo abbia portato via non ci è ancora dato saperlo. Essendo però l’oggetto misterioso diventato nel frattempo proprietà dello Stato, in quanto installato su suolo pubblico senza permesso, è scattata la denuncia per furto. È tutto? Neanche per sogno! Il primo dicembre rimbalza sui media la notizia che il 26 novembre in Romania, a Piatra Neamt, sulla collina di Batca Doamnei, è stato rinvenuto un nuovo misterioso «monolite», assai simile a quello dello Utah. E poi ne è spuntato un altro sulla Pine Mountain, ad Atascadero, in California. E poi ancora si è saputo che a rimuoverlo sono stati quattro uomini che intendevano tutelare il sito dall’invasione dei curiosi. Poi il governo ha dichiarato che non indagherà sul furto. Poi è stato comunicato che dalle immagini satellitari il «monolite» risulta già presente nell’estate del 2016. In tutto questo, nonostante sia forte l’opinione che si tratti di una burla, tutti sembrano contenti di seguire l’evolversi a puntate di questa storia ricca di colpi di scena, cercando di prevederne il finale.

Ho chiesto ad Anish Kapoor qual è la sua opinione da scultore. «L’oggetto nello Utah non è un McCracken» ha risposto. «È troppo malfatto e la scala è troppo ovvia. Non è granché. Ma chi può dirlo?» Scetticismo più che condivisibile. Di beffe nella storia dell’arte non ne mancano. Una delle più famose è stata quella dei falsi Modigliani ripescati dai fossi livornesi nel 1984. La vicenda ebbe inizio con una trovata della direttrice del Museo di Villa Maria, Vera Durbé, intenzionata ad accendere l’interesse intorno a una mostra di scarso successo di sculture di Modigliani, curata insieme al fratello Dario, direttore del Museo d’Arte Moderna di Roma. Rispolverando la leggenda secondo cui Modigliani avrebbe gettato nel Fosso Reale alcune sculture, ottenne che fosse dragato. Le operazioni furono seguite con grande interesse dai mezzi di informazione per diversi giorni, finché furono pescate delle teste di pietra che suscitarono prima grande entusiasmo e poi imbarazzo tra studiosi del calibro di Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi, convinti della loro autenticità. Di lì a un mese, quando le tre sculture erano state già incluse nella mostra a villa Maria, alcuni studenti universitari livornesi rivelarono ai giornali di essere gli autori di una delle teste, realizzata per burla con un trapano elettrico, un martello e un cacciavite. Poco dopo si seppe che l’autore delle altre due era un giovane artista livornese.

Certo è che nel caso del «monolite» la ricetta presenta ingredienti gustosi. Da sempre interessato ai fenomeni di psicosi individuale e di massa, e al modo in cui la nostra mente si relazione ai misteri e alle esperienze insolite, anche inquietanti, Tony Oursler esprime la sua amarezza: «È come se l’America avesse perso la sua anima e la stesse cercando in una replica dozzinale di 2001: Odissea nello spazio» mi dice. «Ma in verità è solo una sorta di violazione di un parco pubblico. Ed esiste veramente solo nella testa delle persone attraverso una diffusione cospiratoria su internet. Quell’oggetto è un simbolo della disconnessione che si sta verificando negli USA in questo momento». La notizia ha avuto un certo risalto anche in Cina. «Il mistero è sempre affascinante» mi scrive Wang Gangyi da Pechino, «lo è anche in questo caso in cui è chiaro a tutti che si tratta di un’operazione di marketing. L’interesse che questa storia sta suscitando nelle persone in tutto il mondo testimonia l’umana necessità di credere in un mito a tutti i costi». Aggiunge l’inglese George Shaw, tra i pittori più interessanti sulla scena internazionale: «Ho una crescente passione per i monoliti e gli earthwork dell’antico paesaggio britannico. Mi sono sempre chiesto in cosa consista l’attrattiva che esercitano su di me e penso dipenda dal fatto che rappresentano delle domande senza risposta, cui è impossibile dare risposta, come “da dove veniamo?” o più precisamente “da dove viene la nostra creatività? E quale è il suo scopo?” La loro presenza guarda costantemente oltre noi stessi e il tempo presente. Guardare le foto di questi oggetti realizzati di recente dall’uomo non muove proprio niente in me in quella direzione. Per me non sono apparsi nel paesaggio ma nei media e nella nostra epoca di stronzate, che sono ciò che sembra contare di più».

Dal canto suo, Sean Scully, attento al modo in cui le persone si connettono tra loro e con i luoghi che abitano, pone l’accento sullo scenario del ritrovamento: «In 2001: Odissea nello spazio, film veramente straordinario, il monolite è una presenza muta. In America, un paese davvero bello, l’arte legata al paesaggio, come quella che si ritrova nei dipinti di Georgia O'Keefe e Agnes Martin, è incredibilmente potente. Il paesaggio è grandioso e dice tutto. È un peccato che non coinvolgiamo maggiormente in nativi americani in un dialogo culturale, dal momento che avremmo da imparare da loro». In altre parole, chi meglio degli indiani d’America potrebbe aiutarci a capire l’essenza di di un luogo come quello in cui è stato trovato il «monolite»?

Il deserto ha sempre esercitato il suo fascino come spazio di incontri soprannaturali e per questo è stato scelto da mistici e monaci eremiti. Nella Bibbia è spesso scenario di rivelazioni e profezie. È nel deserto che Giacobbe sente la chiamata di Dio che gli annuncia che sarà padre di una grande discendenza. È nel deserto che, nel momento di maggior disperazione, quando sente vicina la morte sua e del figlio Ismaele, Agar viene rassicurata da un angelo del signore. Ed è sempre nel deserto che il diavolo conduce Cristo per tentarlo. Ancora, è nel deserto che, secondo il racconto del IV secolo d.C. di Atanasio di Alessandria, Sant’Antonio incontra, affronta e sconfigge il diavolo che prende sembianze di animali, demoni o belle donne e cerca di distoglierlo dai suoi intenti percuotendolo, spaventandolo, provando a sedurlo. Una storia che ha ispirato numerosi artisti.

Nell’arte contemporanea, poi, il deserto è lo spazio eletto dai landartisti. Come ha scritto Walter De Maria nell’aprile nel 1980, «l'isolamento è l'essenza della Land art», il deserto è il luogo in cui «l’invisibile è reale». Basti pensare a Lightning Field, installazione permanente realizzata dallo stesso De Maria nel 1977 nel deserto del New Mexico: quattrocento pali di acciaio inossidabile, alti circa tre metri con un diametro di cinque centimetri e con le estremità appuntite rivolte verso l’alto. Riflettendo la luce in modo sempre diverso, questi pali arrivano a infuocarsi in alcune ore della giornata e ad attirare fulmini dando vita a uno spettacolo di luci tra il cielo e la terra. Provate a immaginare di trovarvi dinanzi a uno scenario del genere, dopo un lungo viaggio attraverso il deserto, in compagnia di poche persone. Per quanto misterioso, il «monolite» nello Utah non può competere.

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