Cent’anni fa, nel 1920, Benito Mussolini si convinse che la Chiesa cattolica dovesse diventargli compagna di viaggio nel suo cammino alla conquista del potere. Sino allora l’aveva considerata, per usare le sue parole, «un’istituzione tendente al potere politico per eternare lo sfruttamento e l’ignoranza del popolo», mentre riteneva che quella cristiana fosse «una morale di rassegnazione e di sacrificio, che può essere cara ai deboli, ai degenerati, agli schiavi: ma che si risolve in una diminuzione della ragione e della personalità umana».

In molti articoli di giornale, talvolta firmati con l’eloquente pseudonimo Vero Eretico, Mussolini aveva bollato il cristianesimo come il residuo di un mondo finito e aveva scritto che il papato e il clero andavano spazzati via per costruire un’Italia nuova, affrancata dalle catene di ogni credenza religiosa. Fino a definire i preti «microbi neri, esiziali al genere umano quanto i microbi della tubercolosi», mentre rivendicava il suo anticristianesimo. Aveva dedicato alla sua battaglia antireligiosa pubblicazioni di vario tipo, tra cui un romanzo, L’amante del cardinale, che Ignazio Silone avrebbe definito un «romanzo anticlericale-pornografico» mentre Margherita Sarfatti, scrittrice, amante e biografa del duce, lo avrebbe liquidato come «un polpettone senza capo né coda».

La svolta

Mussolini aveva fatto della polemica atea e anticristiana un punto di forza della sua militanza politica. Eppure, nel 1920 tutto cambiò. Improvvisamente, tra lo stupore di tanti suoi compagni di militanza, il duce del fascismo si scoprì filocattolico. Prese a elogiare il Vaticano come punto di riferimento per centinaia di milioni di persone nel mondo e, dopo aver rinnegato il suo precedente attivismo anticristiano, si disse un uomo «profondamente religioso». Si propose come un difensore delle istanze cattoliche e prospettò esiti felici della questione romana, se il fascismo fosse andato al governo del paese.

Mussolini non si era convertito sulla via di Damasco (o di Roma). Semplicemente, dopo la disfatta elettorale del 1919, aveva capito che il movimentismo fascista delle origini era insufficiente. I Fasci di combattimento, fondati pochi mesi prima nella riunione di piazza San Sepolcro a Milano, sembravano già al loro epilogo, incapaci di attrarre consensi elettorali. Così il romagnolo impresse al fascismo una virata a destra per attrarre nazionalisti e cattolici conservatori.

Fiutò la debolezza del Partito popolare italiano, che nonostante un’ottima affermazione elettorale era diviso all’interno e godeva di un sostegno fragile dal Vaticano. Intuì di poter conquistare spazio a destra e divenne così filocattolico, in un tempo in cui il cattolicesimo italiano era per lo più su posizioni conservatrici. Soprattutto, Mussolini, con la sua svolta del 1920, aprì le porte a un discorso nazional-cattolico, che tendeva a inglobare il cattolicesimo, in chiave identitaria, all’interno di un’ideologia nazionale, fascista e, di lì a breve, imperialista. Buona parte del cattolicesimo italiano cedette alla seduzione del potere e si lasciò andare all’abbraccio del fascismo, sperando nella nascita di uno Stato confessionale.

Il santo più italiano

Il nazional-cattolicesimo prese quota come ideologia per l’Italia fascista e si manifestò appieno nel 1926, in occasione del centenario della morte di san Francesco, celebrato in una grandiosa coreografia come «il più santo degli italiani e il più italiano dei santi». Il 1929, con i Patti Lateranensi, segnò un ulteriore rafforzamento del nazional-cattolicesimo, destinato però a infrangersi nella seconda metà degli anni Trenta quando Mussolini, con un altro radicale cambio di rotta, spinse il fascismo all’adozione di un’ideologia razziale che era incompatibile con il cristianesimo e che provocò la fine dei sogni nazional-cattolici, con grande delusione degli ambienti ecclesiastici vicini al regime.

È una storia lontana un secolo. Eppure, la tentazione del nazional-cattolicesimo e dell’utilizzo politico della religione non è relegata in un tempo passato. È la visione proposta oggi dai sovranismi, che inseriscono la fede religiosa in un discorso d’identità di popolo contrapposta gli «altri», a chi è considerato straniero, nell’accezione di estraneo. È il rifugio di chi guarda spaventato al mondo globale, troppo grande e spersonalizzante, tanto da apparire minaccioso. È la chiusura di chi pensa che bisogna difendersi dall’islam, idea che trova nuovi appigli nelle vigliacche azioni terroristiche di questi giorni a Nizza e a Vienna.

La storia non ci è mai davvero maestra di vita, tuttavia qualche lezione ce la offre: quando la Chiesa italiana si lasciò andare, in molte sue articolazioni, all’abbraccio con il fascismo, il nazional-cattolicesimo divenne l’ideologia su cui basare il sogno di uno Stato confessionale, che avrebbe ridato centralità ai valori cattolici. Sappiamo come quella storia andò a finire. E appare tanto attuale oggi il monito di don Primo Mazzolari, che di fronte a quegli anni bui avvertiva che subordinare la religione al nazionalismo è un’eresia. Il cristianesimo, diceva, non può mai essere avvilito «dentro le prigioni del particolarismo nazionale o statale».   

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