Ci si creda o no, fino agli anni Sessanta del secolo scorso c’era uno sport di massa la cui classifica mondiale non funzionava con un asettico meccanismo di assegnazione punti ma, grosso modo, sulla fiducia. Si chiedevano opinioni e voti che si tramutavano in graduatorie.

Quello sport è il tennis e per capire come sia stato possibile, è necessario un riassunto delle tappe che conducono ai nostri giorni, in cui il computer spopola e calcola ogni possibile statistica di gioco. Per sua natura dilettantistico, il tennis prese a dividersi tra amatori e professionisti (gli unici autorizzati a essere pagati in cambio della prestazione) per decenni. Fino al 1968: cioè quando, finalmente, si permise anche ai prezzolati – ai tempi venivano visti pressappoco così – di partecipare ai grandi tornei, come Wimbledon e il Roland Garros, riservati per generazioni ai soli dilettanti. Dopo la liberalizzazione, ci si trovò però di fronte a un dilemma: come classificare i giocatori confluiti dai due mondi? Con quale metro?

I professionisti non avevano mai affrontato il problema, giacché la loro carriera consisteva in una serie continua di esibizioni-baraccone, strapagate ma dal valore sportivo nullo. I dilettanti, invece, venivano valutati in base a criteri misti, usando liste compilate dalle federazioni nazionali ma, soprattutto, i gusti personali dei proprietari dei tornei, sensibili al richiamo dei tennisti più famosi e spettacolari. Sicché si decise di affidare il cosiddetto ranking mondiale a personalità eminenti del tennis, tra cui i reporter del Daily Telegraph di Londra Wallis Myers, John Olliff e Lance Tingay. La classifica di Tingay, in particolare, venne presa come riferimento per stilare l’elenco dei top ten fino al 1972, e divenne una guida universalmente riconosciuta per la compilazione delle teste di serie e per l’assegnazione del titolo di miglior giocatore della stagione.

Settembre 1973

A pensarci ora, un tempo in cui la pagella del cronista vale sì e no a risolvere una partita di Fantacalcio, viene da sorridere. Quel limbo di soggettivismo discrezionale terminò quando il primo grande patron del tennis, l’ex campione e manager Jack Kramer, si rivolse a un celebre ingegnere della General Electric, Simon Ramo. Un geniaccio morto a 103 anni nel 2016, noto per aver contribuito, con i suoi studi, alla difesa Usa contro i nazisti. Ramo usò un ciclopico computer mainframe, detto Blinky perché lampeggiava di continuo come un semaforo da cantiere, e gli fece masticare una miriade di risultati mischiati a una approssimativa catalogazione dei tornei, dai più (classe A) ai meno (classe E) importanti. Nell’agosto del 1973, finalmente, il cervello elettronico sputò la prima classifica mondiale ufficiale del tennis basata su criteri magari opinabili, ma in sé oggettivi: una volta deciso che ogni torneo vale tot, i risultati si sommano e si calcola la media. Il numero uno del mondo del calcolatore risultava essere il rumeno Ilie Nastase.

Così è più facile comprendere il senso di Vilas: tutto o niente, il documentario diretto da Matías Gueilburt e reso popolare da Netflix. Un bel prodotto, a dispetto della traduzione poco accattivante: il sottotitolo originale è una frase di un eroe nazionale argentino, il generale José de San Martín («Serás lo que debas ser o no serás nada»). Il lavoro racconta non tanto l’epopea di un campione, quanto la consumazione di una somma ingiustizia. Mancino, nerboruto, fascinoso tanto da far perdere la testa a Carolina di Monaco, Guillermo Vilas è stato il prototipo del campione moderno. Il primo a utilizzare scientificamente le parabole arrotate con il topspin, il primo a capire che la preparazione atletica contava quanto, se non più della capacità di toccare la palla con garbo. Il primo a sottoporsi ad allenamenti massacranti e ad avvantaggiarsi dei rudimenti di nutrizione sportiva.

Nel 1977, Vilas mise in fila una serie tuttora imbattuta di vittorie consecutive: 46 match uno dopo l’altro e, per spezzare quella catena di successi, servì un mezzo inganno. Nella finale del torneo di Aix-en-Provence, difatti, il suo avversario (proprio Ilie Nastase) si servì di un attrezzo controverso, di lì a poco messo all’indice dalla federazione internazionale e mai più usato: la cosiddetta incordatura-spaghetti, una doppia fila di corde che permetteva di conferire alla palla effetti del tutto imprevedibili. Tra gennaio e dicembre, in quella stagione favolosa, Vilas fece incetta di 16 tornei e 145 partite chiuse vittoriosamente. Eppure, incredibile dictu, la classifica mondiale non riconobbe mai a Guillermo Vilas, né prima né dopo quella stagione sfavillante, la prima posizione. Possibile?

Quali dati?

La classifica, in quei primi anni, non solo adottava un sistema grezzo di calcolo, basato sulla media brada dei punti conquistati nelle ultime 52 settimane dell’anno. Soprattutto, fatto ignoto ai più ai nostri giorni, non prevedeva l’aggiornamento settimanale: quindi poteva capitare che un giocatore, poniamo il numero 2 del mondo, vincesse un torneo; e un altro, poniamo il numero 1 del mondo, perdesse al primo turno, cambiando in peggio la sua media. È esattamente quello che successe il 22 settembre del 1975: se la classifica fosse stata pubblicata, Vilas – vittorioso in un evento del circuito – avrebbe sopravanzato, seppur di un nonnulla, Connors. E là sarebbe rimasto, in vetta alla classifica, per 5 settimane. A gennaio 1976, idem: in altre due settimane, la media dell’argentino era superiore a quella di ogni altro tennista del pianeta. Peccato che nessuno si curasse di dare continuità al flusso di dati: nel 1975, per esempio, l’Atp, l’organo ufficiale del tennis professionistico, pubblicò appena 13 classifiche settimanali, tutte con Jimmy Connors in testa. Nelle altre 39 settimane, nonostante i risultati continuassero a prodursi, tacque. E a fine stagione, in maniera del tutto arbitraria, attribuì tutte le settimane di vetta a Connors.

Per comprendere un fatto oggi difficile da accettare, va detto che, negli anni Settanta, il concetto di numero uno del mondo dettato dalla classifica non era così sentito. Il valore di quell’elenco crebbe solo col tempo: nessuno lo avrebbe mai barattato in cambio di una vittoria in un torneo Slam, ma neanche di un evento come Roma, o Monte Carlo, o anche meno.

Ricalcolare tutto

Di questa intricata vicenda del ratto di ranking si appassionò uno storico giornalista-tennista argentino, Eduardo Puppo, tanto da farla diventare un cruccio quotidiano, circostanza confermata nel filmato dalla sconsolata moglie. Una fissa, diremmo noi. Imbarcato a bordo della crociata uno statistico, Puppo fece ricostruire la carriera di Vilas in quei tre anni d’oro, dal 1975 al 1977. Terminati gli studi, nel 2014 chiese conto all’Atp – nella persona dell’allora presidente Chris Kermode – di una svista vecchia di quasi quarant’anni, allegando 1.200 pagine di calcoli e correzioni alla classifica passata in giudicato. C’erano sette settimane in cui Guillermo Vilas era incontestabilmente stato il numero uno del mondo, ma la classifica semplicemente mancava. Non era stata prodotta.

Curiosamente, Puppo verificò anche un dato contrario agli interessi del suo idolo: nell’anno migliore di Vilas, quel 1977 d’oro, i criteri del ranking di allora gli avevano correttamente negato la cima della classifica, assegnata invece a Connors. E ciò nonostante l’argentino avesse vinto due Slam (Jimbo nessuno), molti più tornei, molte più partite. Lo statunitense venne (ingiustamente nel merito, secondo tutti i campioni interpellati a proposito) ma correttamente dal punto di vista formale, premiato da una media migliore: giocò meno e vinse molto, compresi alcuni torneini con tabellone a quattro giocatori, costituiti da sole semifinali e finale, oggi impensabili.

Niente da fare, però. Nonostante la corposa documentazione l’Atp rispose picche, sostenendo che il ranking degli anni Settanta non fosse né sbagliato né incompleto ma, semplicemente, figlio dei tempi. Era prassi aggiornarlo di tanto in tanto. Puppo, come narra il documentario proseguì la battaglia decidendo di chiedere manforte proprio a lui, a Guillermo Vilas. Cosa che capitò: l’ex campione scrisse un’accorata lettera per sostenere il lavoro di Puppo e per chiedere che gli fosse riconosciuto, senza alcun risarcimento economico ma solo per giustizia, ciò che da giocatore non ebbe mai la soddisfazione di leggere. Essere stato il numero uno del tennis. Ma neanche il coinvolgimento di un legale, l’avvocato Sautu de la Riesta, sortì alcun effetto: l’associazione giocatori, nel 2018, dichiarò la questione respinta e definitivamente estinta.

La ragione del niet non risiedeva nella cattiveria umana ma in un ragionamento di autotutela: se Vilas venisse mai accontentato, disse l’Atp, si darebbe la stura a un fiume di ricorsi per vedersi corretta o rivista la classifica da parte di migliaia di ex atleti. E se qualche leguleio particolarmente fantasioso arrivasse a domandare l’annullamento di un’edizione di Wimbledon, perché viziata da un tabellone compilato con criteri scopertisi errati? Meglio, insomma, tenere il tappo chiuso e far digerire il torto a Vilas.

Il documentario finisce così, con Puppo e Guillermo che camminano insieme; l’uno arzillo, l’altro – in contrasto stridente con la muscolarità dei tempi che furono – incerto e fragile, anche nella voce incrinata, da seminfermo. Ciò che non si racconta è che il nuovo capo dell’Atp è un ex giocatore italiano di valore assoluto, nonché laureato in Giurisprudenza all’Università di Bologna. Si chiama Andrea Gaudenzi e, nell’anno appena passato, si è dovuto occupare di cose ben più cogenti, come il gioco bloccato dalla pandemia. Una volta ripartito il mondo però, e con lui il tennis, potrebbe rimettere mano a questa vicenda e scovare, da mente brillante con retroterra giuridico qual è, una soluzione ad personam. Perché la soluzione esiste, da qualche parte: ci vuole solo il modo giusto per vestirla addosso a Guillermo Vilas che, oggi, ha 68 anni e non sta bene, perciò bisogna fare in fretta.

© Riproduzione riservata