«Quando faccio qualcosa mi piace farla bene». Lo scorso 23 ottobre Pelé ha compiuto 80 anni, il mondo intero lo ha omaggiato e anche noi ci uniamo, con un po’ di ritardo, alla celebrazione. Lo facciamo a modo nostro, cominciando col riprendere un vecchio spot in bianco e nero che i lettori più anziani sicuramente ricorderanno.

Circolava in tv a metà degli anni Settanta e reclamizzava il deodorante Brut 33 di Fabergé, nel contesto di una campagna pubblicitaria che arruolava altri sportivi di punta come Franz Beckenbauer, Barry Sheene, Adriano Panatta, Kevin Keegan.

Di quello spot esiste una versione lunga che raffigura una sequenza di gesti compiuti in campo da O Rei do Futebol e vi aggiunge la rovesciata che all'inizio del decennio seguente diverrà un gesto cinematografico in Fuga per la vittoria. Il pubblico delle generazioni successive vedrà in quel gesto un virtuosismo mutuato dai campi di calcio e trapiantato nella fiction cinematografica. Per il pubblico televisivo degli anni Settanta, viceversa, essa è soltanto la clonazione di uno stilema pubblicitario.

Nella parte finale dello spot, sulle immagini che lo ritraggono impegnato a strimpellare la chitarra, Pelé dice che «quando faccio qualcosa mi piace farla bene». Ma davvero il signor Edson Arantes do Nascimento ha fatto come si deve tutte le cose in cui si sia cimentato? Beh, insomma.


L'avventura politica
Magari laddove ha sbagliato l'avrà fatto con passione. Di sicuro ce l'ha messa tutta nel ruolo di ministro dello Sport e di presidente dell'Instituto Nacional de Desenvolvimento do Desporto (Indesp) nel governo formato dall'allora presidente del Brasile, Fernando Henrique Cardoso. Il frutto di quell'impegno triennale è una legge sullo sport, la 9.615 del 24 marzo 1998, che porta il nome di Legge Pelé. Testo vasto e ambizioso che pretende di razionalizzare lo sport brasiliano e, in particolare, il mondo del calcio. I suoi effetti? Quantomeno controversi.

Per inquadrare efficacemente il senso della lei Pelé bisogna tornare al tempo in cui l'ex calciatore viene nominato ministro dello Sport e messo a capo di un dicastero che fin lì non era mai esistito. Provvederà l'attuale presidente Jair Bolsonaro a spazzarlo via dalla mappa politico-istituzionale brasiliana. Ma questa è un'altra storia. Dunque siamo nel 1995, anno cruciale per la storia sociale del calcio mondiale. Nello scorcio finale di quell'anno, il 15 dicembre del 1995, la Corte di giustizia europea con sede in Lussemburgo pronuncia l'atto giuridico che sconvolge lo sport professionistico europeo e lo plasma nella forma che ci è oggi nota: la cosiddetta sentenza Bosman. Che contrariamente a quanto afferma la vulgata ha come principale effetto non già la libera circolazione (e il libero impiego in campo) degli atleti professionisti di nazionalità comunitaria nei paesi della Comunità europea, bensì l'abrogazione di quel meccanismo del contratto di lavoro che veniva denominato “indennizzo”. Esso stabiliva che la società sportiva avesse diritto a essere indennizzata per il trasferimento di un proprio atleta anche a contratto scaduto. Di fatto, una disciplina schiavista del rapporto di lavoro, un unicum nel panorama delle relazioni industriali.

La sentenza Bosman cancella questo obbrobrio e lo fa alla fine dell'anno 1995. Desta curiosità che il neo-ministro dello Sport brasiliano, insediato in un ruolo anch'esso nuovo di zecca all'inizio di quel medesimo anno (3 gennaio 1995) cominci da subito a lavorare al varo di una legge che afferma un principio fortemente impattante sul calcio brasiliano: la fim do passe, cioè il medesimo principio imposto dalla sentenza Bosman ma con mesi di anticipo.

Il lavoro per il varo della lei Pelé dura poco più di tre anni. Ma non parte da zero. E questo dettaglio genera una delle polemiche più robuste intorno alla legge.

Lo scippo a Zico
In realtà, secondo giudizio condiviso da diversi analisti, la lei Pelé fagocita una precedente legge sullo sport. Si tratta della legge numero 8.672 del 6 luglio 1993, nota come lei Zic. Sì, proprio Arthur Antunes Coimbra, colui che nella nazionale brasiliana è stato l'erede di Pelé ma da legislatore lo precede. In verità l'impegno di Zico in politica è di brevissimo respiro. Nominato nel ruolo di Segretario allo sport dell'allora presidente Fernando Collor de Mello (che si dimetterà dalla carica a dicembre 1992 per evitare di essere disarcionato tramite procedimento di impeachment), l'ex Udinese rimane in carica soltanto un mese: da marzo ad aprile 1991. Ma a dispetto di una così risicata permanenza in carica Zico vede battezzare con suo nome la legge sullo sport che per prima prova a rimettere ordine nel mondo sportivo di un Brasile da poco tornato alla democrazia.

La lei Zico viene presa di peso e portata dentro la lei Pelé (c'è chi sostiene che la vecchia legge costituisca il 58 per cento della nuova), che di fatto si compone di una serie di innesti sul corpo della precedente. E i principali innesti riguardano il calcio, che in Brasile è una religione più che uno sport. E forse l'errore di partenza, da cui deriveranno le disfunzionalità della legge e dei suoi effetti, sta proprio nella sottovalutazione di questo aspetto. Perché la lei Pelé pretende di modernizzare in modo spinto ciò che appartiene alla sfera del rito. E inoltre alcune delle scelte di fondo comportano sottovalutazioni di prospettiva o clamorose forzature. Ciò che risulta evidente a proposito dei due punti maggiormente focalizzati sul calcio: la già menzionata fim do passe e la trasformazione forzata dei club professionistici in società di capitali.

Da un padrone all'altro

Una volta entrata in vigore a marzo 1998, la lei Pelé traccia un percorso per attuare nello sport professionistico brasiliano lo stesso principio affermato in Europa dalla sentenza Bosman: stop al meccanismo dell'indennizzo e libertà per il calciatore (o, in generale, per l'atleta professionista) alla scadenza del vincolo contrattuale. Il principio della fim do passe va dunque a colpire la legge dello stato che aveva dato sigillo legale all'assoggettamento del calciatore al club: la 6.354/76 del 2 settembre 1976, non per nulla nota come lei do Passe. Ma come nel caso della sentenza Bosman, un atto giuridico pronunciato per liberare il lavoratore dello sport e ampliarne il set dei diritti sortisce effetti collaterali opposti, ciò che per l'ennesima volta fa prendere coscienza di un'amara verità: aumentare la dotazione dei diritti non significa rendere automaticamente più liberi e emancipati tutti i destinatari di quei diritti.

Succede infatti che i calciatori, una volta liberati, debbano anche gestire da sé la carriera. Ciò che quasi nessuno fra loro è in grado di fare. E da lì vengono poste le condizioni per l'affermarsi di una nuova razza padrona del calcio: quella degli intermediari. Tale dinamica si struttura in Europa, dove la tradizione delle istituzioni democratiche e la regolazione dei mercati sono realtà consolidate nel corso dei decenni intercorsi dal dopoguerra eppure ciò non basta per mettere i calciatori al riparo da un nuovo assoggettamento. Figurarsi in Brasile, paese che nel 1998 si è messo alle spalle la dittatura da nemmeno 15 anni e presenta un grado di regolazione dei mercati prossimo al feudalesimo. Infatti nel paese di O Rei, come nel resto del sud America, i calciatori passano a essere immediatamente marionette di agenti che acquisiscono persino percentuali dei diritti economici, e dunque oltre che essere intermediari sono parti interessate nelle transazioni. Inoltre, nel business dei diritti economici dei calciatori entrano anche gli investitori esterni (impresari privati, banche, fondi d'investimento), con l'effetto di imprimere una finanziarizzazione spinta del mercato dei calciatori. Rispetto a tali rischi, che pure erano evidenti già prima dell'entrata in vigore della legge dato il consolidato strapotere degli intermediari in sud America, la legge 9.615 non appronta alcun argine. E basta un anno dalla sua entrata in vigore per spingere il sociologo brasiliano Nilso Ouriques a parlare di «modernizzazione conservatrice».

A Sad story

E di modernizzazione conservatrice si parla anche nel caso della trasformazione forzata delle società sportive in Sociedades anónimas desportivas, cioè società di capitali che si aprano agli investitori esterni. La ratio è rendere le società calcistiche più stabili rispetto alla fragilità del modello associativo, ormai incapace di confrontarsi con la costante crescita economica e dimensionale di una società sportiva professionistica. L'effetto immediato è la creazione di una dual governance fra la dimensione democratico-associativa (il club) e quella economico-finanziaria (la società di capitali composta in parte maggioritaria dagli investitori). La dualità si trasforma sovente in conflitto, e inoltre non sempre gli investitori esterni sono soggetti trasparenti. Le società di calcio aprono infatti le porte a prestanome di agenti, o fondi d'investimento con sede legale presso paradisi fiscali, o avventurieri d'ogni foggia. Ma soprattutto è il principio dell'obbligatorietà della trasformazione in Sad, da compiersi entro due anni dall'entrata in vigore della lei Pelé, a creare effetti distorti. I legislatori brasiliani faranno presto a tornare indietro rispetto a questo dettato della legge, ma intanto i club professionistici del paese sono finiti quasi tutti nelle mani di privati. Col risultato che il calcio brasiliano continua a presentare una fragile struttura economica e in più ha aumentato il grado di opacità.

Quando tutto ciò accade O Rei è già lontano dalla politica. A maggio 1998, subito dopo aver concluso il percorso di approvazione della legge, si dimette da ministro per dedicarsi al più domestico ruolo di commentatore televisivo. I Mondiali di Francia incombono, non può mancare. Negli anni successivi si troverà addirittura a criticare gli effetti prodotti dalla sua legge riguardo alla libertà dei calciatori nel rapporto con gli agenti. Ammettendo così di avere clamorosamente sbagliato uno dei gol più importanti della propria carriera. Questa cosa non l'ha proprio fatta per bene, mister O lei.

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