Il 18 agosto del 1983 il tetto di palme di cocco della casa della mia famiglia materna se ne vola via. Mia madre ha tredici anni, e non è mai stata testimone di un monsone così violento.

Le notti successive le avrebbero trascorse sotto il fruscio dei manghi nel giardino sabbioso di mia nonna, lei, i genitori e le cinque sorelle,  per paura che le quattro mura potessero crollare su quel che restava delle loro vite.

Sotto quegli alberi, sdraiati sui paduru ammorbiditi dalla vecchiaia, saremmo tornate a dormire alla vigilia della sua partenza per l’Italia, molto tempo dopo: si sa che si ritorna a dire addio ai luoghi dove si è diventati sé stessi.

Frattanto la casa regge ai loro dubbi, eppure, in quella sera mette radici in mia madre la paura di non avere un luogo a cui appartenere. Avrebbe continuato a incubare quel pensiero, per poi trasmettermelo come una malattia che ancora oggi mi debilita.

Era venuta su guardando torva le risaie che erano state mondate da una generazione per la successiva affinché in suo padre potesse strisciare l’idea di metterle a garanzia dei propri debiti.

Le aveva perse tutte, e ora insieme alle sorelle, le divise bianche della scuola appese ai rami più alti, il chittaya attorno al corpo nudo, cercano, lavandosi nel fiume, dei pesci magri da friggere, mentre qualcun altro si mangia il loro riso. Era l’anno del luglio nero: si stima che le violenze nel paese lasciarono centomila Tamil senza una casa.

Le fondamenta

Nell’aprile del 1990 mio padre pone le fondamenta della villetta in cui mia madre mi avrebbe portata ancora odorante di ospedale. Aveva venticinque anni e da poco aveva conosciuto sua moglie, ma allora era solo la sarta che, non appena aveva potuto permettersi il biglietto dell’autobus, era fuggita con le due sorelle minori dal distretto orientale durante il breve cessate il fuoco di quell’anno.

Lei, prima ancora di innamorarsene, con lui si era sentita a casa, che è quasi un sinonimo di felicità. L’edificio e il loro matrimonio si erano innalzati nel giro di una manciata di mesi e la mia ristretta famiglia paterna si era riunita intorno alla pignatta d’argilla da cui traboccava il latte lattiginoso di cocco che dalla notte dei tempi inaugura le cose nuove.

Era di buon auspicio: le mura e chi le avesse occupate sarebbero stati toccati dalla fortuna. Quel rito arcaico è capitolato sotto i fendenti che gli ha mosso la cattiva sorte: la villetta ci ha visto felici per un breve periodo, prima che le eccentricità di di mio padre mutassero nei vizi di Saman ed estirpassero le radici di mia madre dalla porta numero 85/B di Arawwala Road, rilocandole in una via Pietro Crespi qualunque.

Mai felice

Non sono sicura di come si traduca l’essere felici in sinhala. Santosai significa sono felice, ma nell’accezione di essere felici per qualcun altro, non come emozione che ha origine e fine in un unico individuo. Mia madre non è mai stata capace di tradurre quello stato emotivo da una lingua all’altra, da un luogo all’altro.

Nella sua vita occidentale sarebbe stata soddisfatta, orgogliosa, serena, compiaciuta, gratificata, contenta, appagata, persino, ma mai felice. Ho sempre sospettato che fosse uno dei sintomi della nostra comune malattia.

Le case della nostra infanzia sono meravigliosamente eterne, e tutte le case che vengono dopo sono un malcelato tentativo di replicarne gli odori, la disposizione, le inquietudini, le emozioni. Di replicare noi stessi quando le abbiamo abitate.

Quella della mia infanzia ha il ricordo rarefatto di un acquario scavato nel pavimento, una delle infinite eccentricità di mio padre, il profumo del latte in polvere, l’odore penetrante del dolcissimo durian che adombrava il giardino sul retro, le pentole di terracotta sul fuoco vivo.

«Il riso non ha lo stesso sapore se non lo cuoci su una fiamma che hai acceso tu», aveva sentenziato acchiamma quando a distanza di un decennio la figlia le aveva piazzato sul tavolo il rice cooker che al duty free dell’aeroporto le avevano dato in omaggio con l’acquisto di un frigorifero.

Era il 2006 e non vedeva mia madre da quasi dieci anni: le deve essere parsa inquieta, costantemente alla ricerca di un luogo o di qualcuno a cui appartenere. Infatti in uno slancio di disperazione aveva riscattato tutte le risaie attorno al giardino sabbioso, e le sorelle avevano cominciato a tornare a casa per la pilatura, nel distretto orientale, e ad andarsene a fine stagione, in compagnia dei sacchi di iuta grassi di riso rosso e basmati.

Quell’infinita estate, unguentata dall’olio di cocco nei capelli, era stata condensata dal tentativo delle mie cugine di asportare il mio essere straniera dalle minigonne, dagli assorbenti interni, dal mio buffo accento. Il mio passaporto tremava un po’ di più ogni giorno, ogni sera ero più irrequieta e malinconica. Non volevo partire.

Avevo battuto i piedi, pianto lacrime tormentate, minacciato mia madre di un odio imperituro: mi era apparso il miraggio di un posto a cui appartenere, e non volevo più essere dislocata. Alla fine quell’ostinazione si era diluita nel settembre della mia terza media, era rimasto un senso di attaccamento a un assortimento umano che mi richiamava indietro e, allo stesso tempo, osava crescere, cambiare e vivere lontano da me, senza di me.

L’ho reciso come si fa con le spine nel fianco. Perché se sradichi una pianta e la travasi più e più volte, alla fine le sue radici smettono di insinuarsi nel terreno, e non attecchisce più.

La villetta decadente

È il 2012 quando guardiamo la villetta decadente di Saman, che nel frattempo ha smesso di essere padre a me e marito a lei: io e mia madre ci convinciamo definitivamente che la malasorte non l’ha abbandonata come avevamo fatto noi.

L’isola aveva gonfiato d’umidità gli infissi, la luce sembra volersi ritirare dai muri ammuffiti, l’albero di durian è un gigante assediato dall’erba alta, l’acquario è prosciugato dei pesci colorati intorno a cui gravitavo un tempo che sembra un’altra vita.

La casa ha visto molti ospiti transitare sui suoi pavimenti. È stata il rifugio del giovane ragazzo che achchi aveva preso come tuttofare; per un breve periodo è stata anche il dormitorio degli operai Tamil, arrestati una mattina prima del lavoro, gli occhi ancora impregnati di sonno; ha dato asilo al fratello di Saman quando un astrologo gli ha svelato che dietro all’ictus dell’unico figlio maschio c’era il malocchio della sua, di casa.

Dall’Europa in quella villa, infine, è tornato il suo primo padrone, a morire. Ha avuto molti ospiti la casa e come tale s’incaparbiva a trattare anche me, la sua legittima proprietaria. A nulla sono valse le ristrutturazioni che mia madre ha avviato per due agosto consecutivi, l’edificio continuava a rivoltarmisi contro, quasi le mie radici fossero malate.

Ho ancora memoria di essere appartenuta a quella casa, di essermi sentita a casa in quella terra, come prima di me mia madre, mio padre, i miei nonni, e addietro nella storia fino a quella striscia di proprietà privata da cui abbiamo preso i nostri cognomi.

Alla fine, però, ho deposto le armi e rinuncio all’idea di ricompormi con quella memoria, accettando in definitiva la condanna di esserle un corpo estraneo. Sarà messa in vendita non appena mio zio, il fratello di Saman, me lo permetterà. «Sopra al mio cadavere», mi ha avvertita dall’altro capo del mondo. E così sia.

Tra la fine del 2020 e per gran parte del 2021 ti ho rotto i coglioni perché comprassimo casa. «Guarda qui» dici davanti all’agenzia immobiliare in via Venini, dove ci fermiamo più o meno tutte le domeniche a guardare gli annunci di trilocali in un quartiere che amiamo, e a cui nel mio delirio febbrile mi sento di poter appartenere, ma che ormai è troppo gentrificato per la tua busta paga. Della mia, neppure a parlarne.

Confusione dei luoghi

«Perché dobbiamo trascorrere i prossimi trent’anni a pagare un mutuo? Sacrifichiamo il bello della vita, e a goderne saranno i nostri figli». La casa è questa immensa sofferenza / che noi addolciamo ai figli con i fiori. È un verso di Valerio Magrelli in Exfanzia, Einaudi, 2022. Anche se forse non avremo né l’una né gli altri. «Vorrei essere uno di quegli stronzi a cui i genitori hanno lasciato una casa, o che li aiuta con l’anticipo o magari dando una garanzia».

Non sopporto questo discorso, sospetto che tu lo faccia per esasperarmi: mi pizzicano le corde vocali le parole di mia madre sugli immigrati che devono lavorare sodo perché la felicità è la misura della volontà individuale. Sospiro. «Siamo cresciuti senza una casa davvero nostra, e tu, tra tutti, dovresti sapere quanto me l’importanza di avere un posto a cui tornare».

Ho confuso a lungo il confine tra luogo privato e luogo di lavoro perché per gran parte della mia vita le due cose hanno coinciso. La cucina dove mia madre mi preparava la colazione è la stessa in cui imboccava l’anziana a cui badava; il “letto” in cui dormivo era il “divano” da cui la nonna guardava la tv il pomeriggio, mentre la sua badante stirava; la mia famiglia che si riuniva sotto la vite nelle sere d’estate era la stessa che consegnava ogni mese la busta paga a mia madre.

Lo sai, che voglio guarire da questa paura di non appartenere a niente. Casa è sempre stato un sostantivo promiscuo, di etimo incerto, e da tempo desidero che torni a essere un semplice femminile, singolare.

Nuovi archetipi 

Da qualche parte ho letto che in questo decennio è cambiato l’archetipo dell’umanità: non siamo più i tipi da marito-moglie, due contratti a tempo indeterminato, proprietari di una casetta carina in quella provincia così schiacciata dalla città da non sapere dove finisce la metropoli e dove comincia se stessa. Mi ha fatto pensare che le persone che abitano le province con le crisi di identità saranno più risolte, e te lo sto per dire quando spezzi il silenzio per primo.

«Giulio e Anna si sposano». Scommetto che glielo ha chiesto lei, penso sorridendo. «Oh. Che bello. Quando?», domando, ma in realtà mi preme sullo stomaco qualcosa di simile all’invidia che di quando in quando mi attanaglia, per le case degli altri, per le famiglie degli altri, per gli altri che appartengono sempre, legati dal sangue, legati dalla proprietà.

Ma non può essere, no? Io non credo nell’istituzione del matrimonio, io non credo più nel possesso e in fondo non ci credi nemmeno tu, siamo troppo progressisti per tutte quelle stronzate. «A luglio. Mi raccomando, ha detto che non lo sa ancora nessuno».

Nemmeno tua mamma è particolarmente ferma su questo punto, almeno non come su quell’altro che dicono debba venire dopo: ho la sensazione che nulla abbia un controllo tanto profondo sul mio corpo quanto le cose che devono andare come sono sempre andate.

Lo sento ogni giorno più estraneo, questo corpo che vesto senza quasi guardare, che è solo un’altra casa che mi si rivolta contro. È in fin dei conti il motivo per cui stiamo passeggiando, perché non voglio arrendermi al fatto che il corpo dei miei vent’anni sta battendo in ritirata e quello dei trenta sta guadagnando terreno, sotto gli occhi, attraverso la schiena, rendendomi meno spigolosa — e nemmeno tanto segretamente ti incolpo di aver accelerato questa transizione. In fondo, ho solo timore di scoprire di aver coltivato tanto a lungo quella sensazione di estraneità a tutto, da non appartenere più nemmeno a me stessa.

«L’altro giorno parlavo con Lore, sai, che siamo gli unici a essere rimasti fermi: Gio è incinta, Giulio si sta per sposare, Pasquale ha comprato casa». Hai inquinato le mie passeggiate serali con trenta minuti di agonia sul mercato immobiliare.

Perché l’archetipo di essere umano sarà anche cambiato, ma a noi sono stati inculcati bene a fondo i desideri - o le malattie - dei nostri genitori, e sono quelli che dobbiamo realizzare per essere felici.

«Allora compriamo casa, mandiamo gli inviti per il matrimonio, e facciamo un figlio, basta che non gli diamo il nome di tuo padre», scherzo. Sorridi di un sorriso che sa che la mia è una battuta a metà. Sorridi di un sorriso che crede di non essermi casa abbastanza, che mi crede in perenne transito.

Oggi vado dicendo che la prima cosa che assaporo quando scendo dall’aereo sull’isola è l’umidità al novanta percento. La verità è che la prima cosa che sento è di non attecchire più: ho somatizzato la mia malattia.

Questo testo è stato tratto da K, la rivista letteraria di Linkiesta curata da Nadia Terranova e Christian Rocca. Dopo i numeri dedicati a Sesso, Memoria e Città, il nuovo numero è ispirato alla Felicità.

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