Barbara D’Urso raduna costantemente sempre lo stesso pubblico sia nell’appuntamento quotidiano sia settimanalmente con quel titolo un po’ strambo, Live non è la D’Urso che con quel “non” attira l’attenzione negando l’evidenza.

Il recente tweet di ex voto a Santa Barbara diramato dal social manager del  Pd ha suscitato una serie di sghignazzi basati su due giudizi: che quel programma sia quanto di peggio corra sullo schermo e che un politico che vi compaia rimedi per ciò stesso la figura dello stolto.

Il primo giudizio riguarda il concetto di “qualità” nella comunicazione: se essa sia un “in sé”, una dote intrinseca e bastevole a se stessa di un romanzo, di un programma o di una nota di giornale, oppure (come noi pensiamo) un “per chi”, un rivolgersi a un ritaglio più o meno numeroso della società a cui un impasto azzeccato di temi e di linguaggio offre coinvolgimento e movimento di cervello.

I ritagli possibili entro il pubblico generale sono molteplici perché a dargli consistenza è sufficiente che un insieme di persone condivida un’infarinatura di competenza in un qualsiasi campo (storia, calcio, gossip, cucina, e così via) ricavandone per ciò stesso l’insopprimibile voglia di provarla e temprarla con costanza, perché nulla ci rassicura e ci dà piacere quanto il renderci conto che ce ne intendiamo di qualcosa. 

Per questo Paolo Mieli da secoli ripassa la storia a ora pranzo su RaiTre e riscuote il favore di chi scruta i paralleli tra i millenni. Per questo Aldo Biscardi nel Processo del Lunedì elevò a potenza le chiacchiere su tattiche e rigori a beneficio di un erudito pubblico maschile attrezzato per gustare le schermaglie.

Per questo, quando è la sua sera, Barbara raduna per tre ore e mezza il 12 per cento della platea televisiva. Un insieme erudito a modo proprio, largamente femminile e fortemente caratterizzato in termini economici e sociali.

Ce ne accorgiamo se – seguendo i dati elaborati dallo Studio Frasi – ci concentriamo su chi, anzi su quelle, che ci pigliano gusto per davvero restando sintonizzate per non meno di cinquanta minuti e che spesso giungono fino alle ore piccole resistendo impavide al sonno che le tenta.

Troviamo donne giovani e anziane, casalinghe e disoccupate. Tutte o quasi con il minimo del titolo di studio, che per le nonne deriva dal costume, ai tempi loro, di bloccare anzitempo l’istruzione delle figlie mentre per le nipoti incide, supponiamo, la sfiducia verso l’avvenire promesso dallo studio (non per caso il grosso dell’ascolto è nel Mezzogiorno e nelle isole, con la Sicilia di gran lunga in testa).

Campi di competenza

Basso titolo di studio non implica di per sé che si tratti di un’audience stupida e stupita perché, anzi, è molto competente circa i contenuti del programma dato che per queste donne il gossip, dai vip di mezza tacca ai reali d’Inghilterra fino a qualche stella dello show business hollywoodiano, è forse un mezzo per librarsi tra la condizione che le stringe e il mondo vasto che invece le respinge.

Che quel “campo di competenza”, con radici fra il pianerottolo e la casa, esista e interloquisca con l’industria della comunicazione lo dimostra l’offerta di riviste sul piano dell’edicola, che per nove decimi è occupato da titoli “dursiani” quali: Eva, Maria con te, Famiglia Cristiana, Vanity Fair, VIP, Giallo, Tutto Gossip, Diva, Vero, Novo, Intimità, Adesso, Così, Io, Novella 2000, Tutto, Voi, Ciao, Chi, accostati – per contiguità tipologica di target –  a Polpette&Polpettine, Cucina Moderna, Novella Cucina, Cotto e Mangiato, Giallo zafferano, Facile con gusto, Ci piace, Eva cucina. Un mondo molto popolare, forse, anzi meglio, “popolano” anche se saltuariamente attira il turismo dello sguardo da parte di ragazze dell’élite, iper istruite ed esperte d’ironia, che tuttavia sono fuori target e spesso non sanno neppure cucinare.

Quel che è certo è che esiste un universo di cose, di pratiche e di saperi perfettamente in grado di alimentare miti, personaggi simbolici, concezioni dei rapporti fra anziani e giovani, donne e uomini e (perché no?) rappresentanti ed elettori.

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Gossip show e politica

Tornando al rapporto fra il gossip show e la politica, dovrebbe essere chiaro che, avendo preso atto della consistenza di un segmento di pubblico dotato di identità e specifico talento di giudizio, il leader che voglia presentarsi a quel consesso dovrà, se non vuole suicidarsi, declinare tanto i temi che il linguaggio verso quelli che lo vedono da casa.

L’errore più grave da evitare è di mascherarsi in modo da somigliare a un’idea sbrigativa che di quel pubblico gli alberga nella mente (Renzi, ad esempio, non la fece giusta indossando il giubbotto chiodo per l’incursione dagli Amici di Maria).

La via maestra è quella di pescare nelle metafore più eloquenti per l’audience cui ci si rivolge, come con il calcio Silvio Berlusconi e a seguire Matteo Renzi che gli rubava la retorica per soffiargli l’elettore. Matteo Salvini adotta invece la chiave percussiva delle “liste”: non parla di “lavoro autonomo”, ma fa una lista di mestieri, non dice il “costo della vita”, ma elenca una nota della spesa e così scarta la comunicazione concettuale – roba da élite intellettuale – e parla con l’immediatezza degli esempi.

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Il segretario del Pd Nicola Zingaretti in formato D’Urso dovrebbe tenersi in tasca il panorama delle bollette di famiglia e spiegare la politica usando la metafora che la rende simile all’amore, ovvero la promessa e il tradimento.

Per tutti i politici l’essenziale è che si ricordino che stanno sì parlando a Barbara, ma per farsi intendere da un’audience degna di rispetto, quanto meno perché tanto scaltrita dal riuscire a districarsi nella caccia al fantasma di Mark Caltagirone e nelle esagerazioni di gesti e di passioni dei trans estremi e delle barbe tinte (di blu, manco a dire). Ragion per cui queste signore non sono ingenue da incantare e sanno perfino leggere le pose del corpo – aperte, sussiegose, ruffiane o rispettose – che s’accompagnano alle chiacchiere. Tant’è che voteranno come gli conviene e, certamente, non per mera simpatia.

Tutti, non solo il social manager di Zingaretti, dichiarandosi grati a Barbara e non a Mediaset che le passa lo stipendio, danno fiato all’idea che la tv sia fatta da persone e non derivi da un sistema di potere e di interessi.

La buona volontà, perfino la missione di «parlare in modo semplice della politica» (Barbara dixit) sono risultanze di marketing e non favori. Per cui, almeno i politici che lo sanno, è consigliabile che non fingano una gratitudine che, per fortuna, non provano.

Altrimenti, anziché usare l’occasione dalla Barbara, ne diventerebbero semplicemente una delle tante maschere a corona, insieme a trans estremi e barbe tinte.

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