È la gara in cui si tocca la velocità di 150 kmh. Più di ogni altra rappresenta il mito del coraggio e affascina il pubblico che si chiede cosa prova, cosa pensa chi la fa? La risposta è facile: niente. L’atleta al via non deve più pensare, provare emozioni, calcolare. La competenza inconscia è l’ultima delle quattro fasi dell’apprendimento motorio. Le persone con un alto senso di autoefficacia tendono a vedere i compiti difficili come sfide da affrontare e non come minacce da evitare
Il coraggio sta al pericolo come il rischio sta alla paura. I quattro termini della proporzione potrebbero essere risolti più o meno così: il coraggio riconosce il pericolo e dalla valutazione del rischio dipende la forza di saper agire tenendo sotto controllo la paura. Per la proprietà commutativa ne deriva che la capacità di affrontare i pericoli è direttamente proporzionale alla capacità di gestire la paura e il rischio. Anche giocando con le altre proprietà delle proporzioni la matematica ci viene in aiuto per confermare che è dall’equilibrio e dal bilanciamento tra questi quattro concetti che deriva la capacità di affrontare le sfide. Il tutto per rispondere a chi si chiede come arriva un atleta al cancelletto di partenza di una gara di discesa libera, la specialità individuale contemplata dal programma olimpico, in cui si raggiungono le velocità più elevate in assoluto: per rendere l’idea le punte record mai toccate in una gara sono rispettivamente di 161,92 km/h da parte di Johan Clarey a Wengen (2013) in campo maschile e da Sofia Goggia a con 150 km/h a Cortina (2020) in campo femminile.
Molto vicine a quelle che caratterizzano le discipline dello slittino che però, si disputa in pista artificiale, riducendo al minimo le variabili di luce, ombre, riflessi, tipologia del manto di scivolamento e disomogeneità causate dai concorrenti precedenti. A ragione dunque la discesa libera è la gara che più di ogni altra rappresenta il mito del coraggio e affascina il pubblico che si chiede cosa prova, cosa pensa chi la fa?
La risposta è semplice: niente. L’atleta al via non deve più pensare, provare emozioni, calcolare: tutto quello che poteva fare per affrontare al meglio la prestazione lo ha fatto prima. L’atleta che compete in questo tipo di gare contro il tempo, insidie e rischi, non ha spazio per ragionamenti su ciò che deve fare o come lo deve fare nel momento in cui serve: no, può solo reagire alla situazione scegliendo la risposta più adeguata in relazione alla varietà, quantità e qualità di competenze inconsce maturate nelle lunghe, estenuanti, ossessive sedute di preparazione.
Le fasi della competenza
La competenza inconscia è l’ultima delle quattro fasi dell’apprendimento motorio. La prima è l’incompetenza inconscia: non ho un’abilità e non lo so. La seconda è l’incompetenza conscia: non ho un’abilità e ne sono consapevole. La terza è la competenza conscia: ho un’abilità ma esprimerla mi richiede grande attenzione e energia. La quarta fase, di competenza inconscia appunto, è quella in cui l’abilità e automatizzata, è nel mio bagaglio motorio, il cervello lo sa, tiene a bada l’emotività mi dà sicurezza e, al bisogno, ne attingo.
Un esempio comune è quello che si vive imparando a guidare l’auto. All’inizio non sappiamo di non sapere perché non conosciamo niente di quelle abilità specifiche. Poi ci sembra impossibile che arriverà un giorno in cui potremo controllare il volante mentre freniamo, cambiamo marcia e mettiamo la freccia direzionale. Eppure poi, con prove su prove, di allenamento in allenamento, quel giorno arriva e impariamo pure a partire in salita, in equilibrio tra frizione e acceleratore, affrontando una curva nella nebbia. Ecco l’atleta di alto livello si allena per avere un repertorio più ampio possibile di competenze inconsce. Da esse deriva il controllo del rischio e la gestione della paura.
Il flusso
La gara è la sintesi di ogni abilità interiorizzata. Durante la prestazione l’atleta deve sprofondare nello stato di quiete, nella dilatazione del momento. È la cosiddetta condizione di “flow o flusso” del coinvolgimento totale, in cui il tempo sembra scorrere diversamente, ogni tipo di distrazione mentale ed emotiva svanisce, la lucidità è assoluta, la focalizzazione massima, ogni movimento è spontaneo. Maggiore è l’immersione, migliore sarà la velocità di agire e reagire con precisione e, di conseguenza, il risultato finale. Il riscaldamento, la fase di avvicinamento al via sono una specie di mantra, un percorso di riti, parole come àncore a cui ricorrere per lasciare l’esterno ed entrare in profondo ascolto di sé stessi. Non è raro che nella fase pre-gara, le telecamere inquadrino atleti impegnati in gesti strani all’apparenza, compiuti a occhi chiusi, accompagnati da una respirazione profonda, consapevole: sono gli elementi di una meditazione in movimento in cui allineare mente, corpo, cuore sulle proprie capacità e mettere in gioco ogni risorsa da cui dipende la classifica ma, prima di tutto, l’incolumità.
Se n’era parlato all’epoca dei dèmoni di Simone Biles e i twisties nella ginnastica, la perdita di orientamento spazio temporale. Una specie di vuoto, di assenza di controllo sul corpo che accade quando la paura rompe l’equilibrio tra i quattro termini della proporzione: è sufficiente un malessere, un eccesso di pressione non controllata, una distrazione, la mancanza di convinzione nei propri mezzi. Ecco, sembra difficile da capire per i non addetti ai lavori ma il compito degli agonisti di alto livello è talmente sfidante verso sé stessi che la percezione di competenza ne risulta essere molto delicata. L'autoefficacia (self-efficacy) si riferisce alla convinzione di una persona nella propria capacità di eseguire con successo un compito specifico o di affrontare una situazione particolare.
L’autoefficacia
È stata teorizzata da Albert Bandura, uno dei più influenti psicologi del XX secolo. L’allenamento, il duro lavoro quotidiano serve a mettere a punto e testare continuamente le capacità al fine di sostenere coscientemente la motivazione e la convinzione. Le persone con un alto senso di autoefficacia tendono a vedere i compiti difficili come sfide da affrontare piuttosto che minacce da evitare. L’atleta di alto livello e a maggior ragione nelle discipline dove in ballo c’è la vita prima del risultato, percorre continuamente il sottile confine tra paura e coraggio, tra rischio e pericolo. Da questo punto di vista, sebbene rispetto a compiti completamente diversi, vive quotidianamente una condizione psicologica paragonata a quella dell’anziano fragile. Incredibile no?
Ogni atleta avrebbe da condividere una sua particolare ricetta di ingredienti indispensabili alla costruzione della self-efficacy che variano col tipo di disciplina, col livello di performance attesa, con le opportunità di preparazione e col momento: ciò che è possibile in un periodo della stagione e in un picco di forma, potrebbe non esserlo in un altro; tutte però condividono il risultato ovvero la gestione della paura di cui la prestazione risulta una conseguenza. C’è un caso di studio interessante da cui è nato anche il documentario Free Solo. È la storia di Alex Honnold noto per le sue incredibili imprese in arrampicata libera (senza alcun tipo di protezione): nello specifico descrive la scalata dei 900 metri di parete verticale chiamata Freerider di “El Capitan” una formazione rocciosa situata nel Parco Nazionale di Yosemite, in California.
Le immagini che tolgono il fiato sono accompagnate dal racconto della sua percezione della paura e della capacità di gestirla che si alimenta nella preparazione, nella pratica costante, nella crescita di esperienza specifica. Nella notte in cui è stato premiato con l’Oscar (2019) ha detto: «Anni fa, quando ho pensato per la prima volta di scalare la Freerider in free solo, mi dicevo oddio, questo fa paura. Ma poi ho allargato la mia zona di comfort finché quegli obiettivi che sembravano completamente folli sono diventati possibili».
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