Il barbone lo incrociavo sempre sotto casa. Era vestito di stracci. Mi aveva colpito perché non allungava mai la mano per l’elemosina. Restava immobile, chiuso in un silenzio sdegnoso. Un giorno mi disse: «Voglio fare un game con te. Una partita non la reggo, ma un game ce la posso fare a tenerti testa. Ti vedo sempre in televisione, ho visto quasi tutte le tue partite. Almeno quelle che decidono di trasmettere al bar».

Gli sorrisi e tirai dritto. Passarono alcuni anni, io ero sempre in giro ma tra un torneo e l’altro tornavo a casa e lui era lì sotto, qualche metro più indietro, qualche metro più avanti. Non era troppo vecchio, ma l’orgoglio era stato vinto dalla fame. Adesso chiedeva l’elemosina sempre, a chiunque. S’era arreso? Credo che fu per quello che gli parlai. «Vieni a farti un game?», proposi.

«E dove?». «Sul tetto di casa mia c’è un campo da tennis». Prima di salire sul tetto gli feci fare una doccia. Fissavo gli stracci puzzolenti che si era tolto di dosso sparpagliati sulle mattonelle del bagno. Non so cosa mi fosse preso. Me ne ero sempre fregato delle ingiustizie sociali, era qualcosa che non mi toccava, non mi riguardava. Forse stavo invecchiando. Forse era per la storia degli Australian open.

Il barbone intanto si era messo a fischiettare sotto lo scroscio dell’acqua.

«Ci vivi solo qui?», urlò. «Ho letto che sei sposato e hai dei figli». Feci un mezzo sorriso a me stesso. «Sono da un’altra parte adesso». «Quante cazzo di case hai? Voglio dire, che senso ha avere una famiglia se non la vedi neppure quando torni a casa?».

Restai in silenzio. Oltre a una racchetta, gli diedi anche maglietta e pantaloncini.

«La roba bianca è chic», mi disse, quando fu pronto. «Non mi piacciono le divise tutte colorate di adesso. Sono schifezze». Annuii mentre lo vedevo incantarsi davanti alla bacheca dei trofei.

«Quanti Grand Slam ci sono qua sopra?», domandò. «Diversi». Il sole del primo pomeriggio cadeva a strapiombo sul tetto, facendo rilucere le linee del campo sintetico. «Sei pronto?», gli feci. «Vuoi battere?». «Certo che voglio battere». «Io ci sono».

Fece rimbalzare un paio di volte la pallina. Si fermò. Ruotò un paio di volte l’impugnatura della racchetta. Si fermò. Tutta la solita liturgia. Forse mi voleva far capire che non lo dovevo sottovalutare.

«C’è una sola cosa che devi promettermi», mi disse. «Devi giocare sul serio, ok?». «Ok, gioco».

«No, davvero. Non pensare di infinocchiarmi, voglio un game solo e voglio che tu lo giochi al cento per cento. Come se avessi di fronte… Chi è quello stronzo che ti ha battuto al tie-break di recente?». Sorrisi: «Rafael». «Ecco sì lui, fai come se giocassi contro di lui». Annuii e ci rimettemmo in posizione. Provò a fare due battute forti e in entrambe le occasioni la palla finì sulla rete. 0-15. «Invece di tentare l’ace prova a mandare di qua la pallina, ok?», lo provocai. «Non dirmi come devo fare, ok? Non accetto suggerimenti». In realtà lo accettò. Al terzo tentativo mi spedì una pallina al rallentatore. Con un dritto lo infilzai lungo linea, però almeno avevamo giocato. 0-30.

Il servizio non era davvero il suo forte, probabilmente non riusciva a inarcare la schiena correttamente. Era a pezzi, anchilosato, dolorante. Tuttavia la pallina riuscì a scavalcare la rete.

In un balzo allungai la racchetta e gli rispedii un drop-shot velenoso. Lo vidi arrancare verso la rete. Se fossimo stati su un campo di terra battuta avrebbe potuto sperare in una scivolata, ma la gomma del sintetico non gli offriva speranza. La pallina toccò terra inesorabilmente. 0-40. Batté ancora in quel modo spento che non gli dava nessuna possibilità. Era spacciato e lo sapeva.

Lo fulminai con un passante incrociato. Game. Neppure un punto gli avevo lasciato ed era stato giusto così. Le ingiustizie sociali non c’entravano più niente. Le avevo temporaneamente risolte offrendo la racchetta e la divisa. Il tennis andava più in profondità. Il tennis era spietato come la vita. Ecco perché dopo aver vinto venti tornei dello Slam, a trentanove anni suonati, non andavo in Australia.

Andammo entrambi a rete per stringerci la mano, io e il barbone. «Non mi sono risparmiato», gli confermai. «La racchetta puoi tenertela, se vuoi», gli feci. «E anche la divisa». Arrancava, c’aveva il fiatone. «Tra tutte, questa resterà la sconfitta più bella della mia vita», disse.

 

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