Riappare la tabellina del nove, che bisogna ripetere in continuazione (sì, anche stamattina che è il primo giorno di scuola, sennò la maestra ci sgrida), amore mio, stiamo facendo tardi, ripetimela per l’ultima volta, una volta ancora e poi zaino in spalla e usciamo di casa, cominciamo, dai, uno per nove nove, che poi lo so perché mi guardi così, perché anche a me la tabellina del nove mi sembrava la più tremenda di tutte, la più lunga, perché hai voglia a dire che sono sempre dieci moltiplicazioni, hai voglia a razionalizzare, arrivare fino a novanta mica è come arrivare fino a venti o trenta (novanta è la paura, e la vita in fondo è quello: tentare di vincere un grande spavento), io ti capisco, hai la mia piena solidarietà, però adesso sbrighiamoci, te ne prego, è già tardi, sono già quasi vecchio, sono già quasi alla fine, qualcuno mi ha fotografato da dietro e ho scoperto di avere una calvizie tipo quel giocatore dell’Hellas Verona anni Ottanta, Pietro Fanna, da chierico, mi è presa una rabbia, una vertigine, due per nove diciotto, bravissima amore mio, ma poi sarà vero che sei l’amore mio?, sarà vero che ti amo?, e quanto e come?, in superficie o in profondità?, chi può stabilirlo?, Dio mio, i genitori sono pazzi, devono rivivere passo passo tutta la loro vita dal principio, per esempio ripassare le tabelline di mattina prima di andare a scuola, e poi la scuola, non c’è niente che sia cambiato meno della scuola, i bidelli all’ingresso sempre con quell’aria trascurata, un poco o tanto avvilita, a presidiare l’ingresso controvoglia, le rampe di scale, il pavimento con le mattonelle a figure geometriche (esagoni?), gli appendiabiti di legno, i banchi che puzzano di alcol, tre per nove ventisette, bravissima, e guardo fuori dalla finestra, uno sguardo rapido per tentare di stabilire dalla luce della mattina se stiamo facendo tardi per davvero e ci chiudono fuori (non lo diciamo ogni mattina?, non è la nostra prima croce?), ma a metà settembre c’è già un cielo marmoreo che si ghiaccia sempre più, diventa stecchito a Halloween, gelato a Natale, impossibile stabilirne alcunché, eccetto che il marmo è una pietra tombale, quattro per nove trentasei, sì, andiamo avanti ti prego, non fare pause nelle quali poi cado dentro, papà cade dentro le tue pause e un giorno o l’altro non riuscirà più a venirne fuori, desidererei dirtelo, dirti che ogni tanto anche papà vorrebbe piangere come fai tu, di colpo, senza vergogna, senza sensi di colpa, mi chiederesti perché?, ne rimarresti stupefatta?, eppure un adulto avrebbe molti più motivi di un bambino per scoppiare a piangere, ha vissuto di più e ha più ricordi, e a un certo punto, di notte, oltre alle ricapitolazioni di routine (dei debiti, dei crediti), si viene presi da una specie di morsa definitiva al cuore, implacabile, che consiste nell’aver nostalgia di tutto, di quel che è stato, pacchetto completo, perché quella è la nostra vita che se n’è andata, e il resto se ne sta andando adesso, forse impazzire vuol dire proprio avere nostalgia di tutto.

Superato l’amore

Cinque per nove?, amore non tentennare, per favore, la sapevi tutta la tabellina, e no, io non ho nessuna intenzione di insegnarti trucchetti matematici per ricordartela, voglio che tu la sappia, voglio che tu la memorizzi, cinque per nove quarantacinque, esatto, e mi perdo nelle mie storie reali o presunte, vere o immaginarie, che differenza fa?, sono tutte donne morte, per davvero o metaforicamente, e così sono circondato di fantasmi, di presenze che vedo distintamente soltanto io, lo capisci?, vedo quei baci come li avessi dati e presi ieri, e quelle nuche quei piedi quei fianchi, ma perché mi torturano così i ricordi, degli amori finiti evapora il veleno mentre resta indelebile lo struggimento (non si può averne uno, solo uno, in cui succeda il contrario?), quelle chiamate, quelle rincorse, quelle giornate in cui il sole era l’abat-jour del letto, come dici amore?, sono distratto?, a che penso?, a cosa vuoi che pensi se non a te?, a che punto eravamo arrivati, ah sì, sei per nove, sì, sei per nove cinquantaquattro, e quegli incontri disgraziati, rubacchiati reciprocamente alle rispettive vite – perché tutto si complica inesorabilmente, le gabbie diventano troppo piccole –, superando portoni e guardiole con portieri distratti, cominciando a baciarsi già negli androni, e poi sempre con più foga sulle scale, imboscati negli ascensori, avvinghiati sui pianerottoli, agli ultimi piani vuoti, sulle terrazze condominiali, vere o inventate, fino al giorno in cui ci si disinnamora, questa attesa spasmodica della fine dell’amore di cui è fatto l’amore, che è l’amore, sempre vissuto col terrore di amarsi di meno, l’ansia e l’angoscia e l’affanno della sciatteria, preludio all’indifferenza, alla fine della febbre, sette per nove fa sessantatré, c’hai indovinato, anzi no, tu lo sai, tu sei preparata, papà è cattivo ed è cattivo perché è un genitore, tutti i genitori in quanto tali sono cattivi, fuori posto, goffi, albatri di Baudelaire in attesa delle derisioni dei marinai o di un esaurimento nervoso (Baudelaire: l’unico poeta che abbia apprezzato in vita mia), ecco perché mamma non la lascio, perché i genitori sono dei soldatini di ferro e marciano insieme, all’unisono, sempre, è un paradosso indefettibile, solo uniti possono superare la disgrazia quotidiana del dover vivere insieme, e poi io credo nei rapporti lunghi, scherzi?, se cambiassi la mamma (o lei volesse cambiare me) dovrei cambiare anche tutte le metafore, la fatica del vocabolario condiviso, dei nomignoli, dei giochi di parole, delle espressioni in codice, suvvia, e poi l’affetto è un amore che è diventato grande, non è come pensano gli sciocchi la sconfitta della passione, bensì una passione cresciuta, superato l’amore, ben oltre l’amore, c’è una cosa bellissima e poeticissima, il rispetto (sì, okay, tra qualche anno già mi pare di sentire la tua obiezione, a volte è identico all’indifferenza).

Raggiungere novanta

Come dici, amore?, mi sono di nuovo imbambolato?, no, sei tu che prendi queste pause troppo lunghe e non dovresti, ce l’abbiamo quasi fatta, abbiamo quasi finito, otto per nove fa settantadue e nove per nove fa ottantuno, sei eccezionale, sei la migliore figlia al mondo e di conseguenza io il papà peggiore, o quantomeno il più inadeguato, ma va bene così, senza pensare agli acciacchi, agli affaticamenti, a quei dolorini, a quei colpi di tosse, i malanni fisici non hanno misteri, ecco perché ci fanno così paura, cosa vuoi ricamare sopra una Tac?, è tutto così triviale, prostata e menopausa, imbiancare, perdere i denti, pian piano smettere di muoversi, l’artrite, Dio dov’è?, Dio sei tu adesso che finisci la tabellina del nove, dai, dimostramelo, dammi la prova dell’esistenza di Dio, l’ultima è facilissima, è una liberazione, infatti già sorridi, e io torno in me, nonostante l’autunno che incombe sia così straziante, destabilizzi, con quest’alba che è una lucina fioca da vecchia sala da biliardo, nove per dieci novanta, amore mio, sì, passami lo zaino, anche quest’anno ce l’abbiamo fatta, basta, chiudo la porta e si va...

Questo testo è tratto dal racconto lungo Trascurate Milano, edito da La nave di Teseo, 2018

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