Teoria e tecnica della doppiezza. L’insidia talebana che nasce dalla ripresa del potere in Afghanistan si gioca anche sul piano della comunicazione, là dove i protagonisti del restaurato emirato islamico mostrano un’insospettata capacità di reggere la scena e convertire in opportunità ogni occasione di esternazione.

Sul piano interno il loro ritorno in sella ha portato indietro di vent’anni l’orologio della storia, azzerando le difficoltose conquiste raggiunte in termini di diritti civili, libertà personali e democrazia. Ma nell’approccio col mondo esterno il regime teocratico utilizza un registro tematico e argomentativo che dimostra grande abilità mimetica. E a questa parte della questione bisognerà prestare attenzione non meno che alla faccia repressiva del regime. Perché si tratta di due aspetti che procedono in parallelo. E concorrono a edificare una struttura del potere fondata su un approccio diverso nei confronti delle altre civiltà e dei relativi regimi, compresi quelli occidentali. Con questi si deve cercare un dialogo, ma fondato non già sulla disponibilità a contaminare i valori o a temperare gli aspetti più radicali di una cultura politica pre-secolare.

Piuttosto è sull’accorto uso del cinismo politico che i Talebani stanno puntando. Come quando parlano di amnistie o di mantenimento delle conquiste femminili del ventennio bruscamente interrotto. Lo fanno perché sono consapevoli che il linguaggio della realpolitik rimane il più diffuso e validato in politica internazionale, e che un accorto uso della menzogna è un pre-requisito per il dialogo anziché un ostacolo. Tanto più che gli interlocutori saranno disposti a prenderle per buone, quelle menzogne, senza darsi pena un attimo di verificarle.

Investite a Kabul

Lungo questo solco si è mossa anche l’ultima conferenza stampa tenuta il 31 agosto dal portavoce del regime talebano Zabihullah Mujahid, nel momento di celebrare il definitivo addio della presenza degli Stati Uniti in Afghanistan.

Fra i primi motivi dell’esternazione c’è stato l’appello agli investitori stranieri affinché puntino i capitali sul tappeto verde dell’economia afghana, con promessa di trasformare quest’ultima in un ambiente sicuro e favorevole per il venture capital. Un registro del discorso da marketing territoriale che spiazza e molto somiglia a una fuga dalla realtà. Ma che in fondo contiene un senso molto meno paradossale di quanto appaia. Perché testimonia di un’ansia di normalizzazione che non viene soltanto da parte talebana, ma appartiene anche a tutti quei settori di politica occidentale (e non solo) per i quali «coi Talebani al potere si deve dialogare».

Realpolitik, appunto. Che tuttavia per funzionare deve concedersi qualche oncia di “unreal”, di calibrata menzogna impastata di narrazione e di “versione alternativa”. Sicché, per ragioni funzionali a una rappresentazione sdrammatizzata della realtà afghana, si può parlare di essa come di un ambiente d’investimento favorevole e senza darsi cura che sul serio un tallero possa giungere dall’estero per fruttare.

Ma a quella medesima linea, e in misura molto meno irragionevole, si fa appello per la riapertura delle sedi diplomatiche straniere dopo la grande fuga d’agosto. Tutto un fare come se la situazione fosse normale. Ma anche, in fondo, un appellarsi alla lunga lista di precedenti che hanno visto i paesi occidentali e non occidentali mantenere relazioni diplomatiche e promuovere scambi commerciali con regimi autocratici o dittatoriali.

I nostri talenti

Attrarre capitali e trattenere cervelli. Ecco un altro aspetto della comunicazione talebana cui non è stato dato il giusto rilievo. Come riportato nell’articolo firmato da Marika Ikonomu e Federico Marconi per l’edizione di Domani del 25 agosto, Zabihullah Mujahid si è espresso durante una precedente conferenza stampa su una questione che testimonia anch’essa quanto, nella loro versione restaurata e restaurante, i Talebani abbiano appreso molte lezioni oltreché il linguaggio del nemico.

Fra i tanti ammonimenti rivolti all’occidente, e soprattutto agli Usa, vi era quello a non incoraggiare l’esodo dei soggetti afghani portatori di skill altamente qualificate: medici, ingegneri, analisti, militari. Per tutti quanti rientrino entro questi profili non vi sarà via di fuga.

Devono rimanere in Afghanistan e prestare i loro talenti al nuovo regime talebano.

All’analista dei rapporti fra cittadinanza e globalizzazione, specie se attento ai fenomeni di skilled migration, o di brain drain e muscle drain, questo registro del discorso suona familiare e schiude delle prospettive inedite sul nuovo corso talebano in Afghanistan. Il regime teocratico armato assume una visione terzomondista dell’economia politica della globalizzazione e ne sposa alcuni argomenti che negli anni più recenti hanno formato l’ossatura di un discorso sul neocolonialismo. Un discorso strutturato intorno alla suggestione della rapina di talento dalla più disparata estrazione (da quello intellettuale a quello sportivo), che i sistemi nazionali del nord del mondo non riescono più a formare in misura sufficiente per consentire loro di reggere la concorrenza globale, e che perciò decidono di drenare dai paesi in via di sviluppo facendo valere una forza economica e un potere di attrazione non contrastabili.

L’assunzione di una visione e di un registro argomentativo terzomondisti costituisce un’altra novità, rispetto a un orizzonte che si pensava dovesse semplicemente dividere le forze in campo tra fedeli e infedeli, tra puri e impuri. Così come già osservato nel caso del registro argomentativo legato all’attrazione degli investimenti esteri, anche su questo piano si avrebbe testimonianza di un grado di complessità introdotto entro uno schema altrimenti manicheo per la catalogazione delle forze in campo.

E vi sono almeno altri due elementi di novità che vanno proposti alla riflessione: la tutela nazionale dei propri “campioni”, prodotti dal sistema formativo strutturato su base statale; e il riconoscimento delle professioni, fondate sul sapere laico e altamente formalizzato, come risorse indispensabili per il funzionamento di un sistema sociale oltreché di un regime politico. Nazione e professione sono due concetti figli della modernità e tali rimangono, per quanto riadattati al contesto locale e alla sua svolta in senso teocratico. Se ne dovrebbe desumere che da parte dei Talebani tornati al governo a Kabul siano in corso dei pur timidi passi verso la secolarizzazione?

Talebani 2.0

A un’ipotesi del genere non crederebbero nemmeno i più solerti dialoganti. Più probabile che i Talebani abbiano imparato a conoscere benissimo il loro nemico. E a parlarne il linguaggio usando i giusti argomenti di persuasione, a solleticarne gli interessi perché trovino un incastro, a trovare dei terreni d’intesa che smorzino lo scontro sui valori ultimi per fare intravedere il ventaglio delle soluzioni di compromesso.

Hanno imparato a stare sulla scena mediatica globale. E lo dimostra il fatto che la loro comunicazione abbia anch’essa dismesso lo schema identitario che divideva fra noi e gli altri, per assumere verso gli altri un tono di confronto e di rappresentazione rassicurante del proprio modello di vita e di organizzazione politica. Recitano una parte che li faccia sembrare affidabili, anche se sanno che nessuno li crederà tali. Poiché il vero punto non è essere creduti, ma essere accettati come interlocutori. E su questo piano l’obiettivo è già raggiunto nei fatti, indipendentemente da quanto dicano molte cancellerie occidentali. Che soffrono della medesima doppiezza ma hanno qualche pudore in più a esibirla.

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