In questi giorni ho traslocato. A essere sinceri dovrei dire che in queste settimane ho traslocato, essendo passato ormai un bel po’ di tempo: eppure i miei libri sono ancora tutti nelle scatole di cartone, impilate contro le pareti su cui verranno montate le librerie. C’è senz’altro un po’ di indolenza da parte mia, vi do ragione, ma posso giustificarmi con la più grande pandemia globale degli ultimi cento anni. Avete idea di che cos’è un trasloco in zona arancione?

Ho scoperto che esiste una piccola letteratura dei “libri nelle casse”, delle biblioteche ancora imballate durante o subito dopo un trasloco. Il testo più famoso di questa minuscola tradizione è senz’altro quello di Walter Benjamin, Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in cui il gesto di estrarre un volume alla volta è l’occasione per farsi sommergere dalla «marea sigiziale dei ricordi» che evocano. Il punto è che, una volta costretti lontani dalla nostra biblioteca, dopo un iniziale spaesamento, un disagio simile alla sindrome dell’arto fantasma di cui soffrono gli amputati, il punto è, dicevo, che ci si fa l’abitudine. Anzi, ci si sorprende con quanti pochi libri si può sopravvivere, a fronte delle soffocanti migliaia che abbiamo ammassato.

Pensavi di essere l’ultimo guardiano dell’umanesimo, poi ti guardi da fuori e capisci di essere una puntata di Accumulatori seriali su Discovery Channel. Comunque. Se Erich Auerbach scrisse il più grande libro di critica letteraria del Novecento, Mimesis, lontano dalla sua biblioteca, mentre era in esilio a Istanbul, posso ben io scrivere queste ottomila battute che state leggendo con ancora la libreria impacchettata: tanto più che mi concentrerò su due libri che invece stringo fisicamente in mano, essendo usciti da così poco tempo da non poter essere finiti nel mio trasloco.

C’è poi da dire che, se anche dovessi iniziare a sbarazzarmi di qualche volume in eccesso, non mi libererei mai di questi due: pur diversi sono entrambi baciati da una bellezza e un’utilità che li rende preziosi. Ed entrambi, come Mimesis di Auerbach del resto, parlano di realismo. “Realismo” è il termine tecnico per indicare una cosa molto semplice ma infinitamente complessa: il rapporto tra la letteratura e la vita. Cioè, a ben vedere, quella domanda che ti prende all’ennesimo imballaggio: ma cosa me ne faccio davvero di ‘sti libri?

Come funzionano i romanzi

Minimum fax riporta in libreria, in una nuova e accresciuta edizione, Come funzionano i romanzi di James Wood, probabilmente il critico vivente più importante degli Stati Uniti: i suoi pezzi per il New Yorker non sono semplici recensioni ma veri e propri saggi che trasformano i romanzi in sismografi di un’epoca. Come funzionano i romanzi è un breve, chiarissimo, mai cattedrattico, “manuale di lettura”. Una rassegna, affabile, piena di esempi dai classici alle ultime uscite, da Tolstoj a Elena Ferrante, delle tecniche e degli elementi della narrazione: dal punto di vista allo stile, dalla “voce” a Flaubert (sì, questo è un autore non una tecnica: ma così fondamentale per la storia del romanzo che merita di essere elevato a strumento), dal tempo al realismo.

Ciò che rende abbastanza unico Come funzionano i romanzi è la capacità di Wood di introdurre gradualmente complicazioni e sfumature sempre maggiori, senza quasi che il lettore se ne accorga, senza mai annoiarlo, e parlando solo di tecnica. Per questo l’ho definito “manuale di lettura”: Wood insegna davvero a leggere e Dio solo sa quanto sia necessario farlo.

Per imparare a leggere ci si mette una vita ed è una capacità sempre più rara anche tra chi i libri li compra. O tra chi i libri li scrive. Non parlo ovviamente di decodificare parole e frasi, cosa che si impara alle elementari, né mi riferisco a quella fastidiosissima e classista espressione in voga sui social di «alfabeta funzionale». No, parlo della capacità di cogliere l’ironia di un testo, ad esempio (ironia che non ha nulla a che fare con l’umorismo ma con la distanza tra ciò che viene detto e il senso che gli si fa assumere), o notare il contrasto tra i punti di vista di un personaggio, del narratore e dell’autore, o accettare che i personaggi siano costrutti linguistici che non coincidono con lo scrittore o con chicchessìa.

Leggere, leggere narrativa, è una sorta di occidentale, laicissima forma di meditazione: «pensate la letteratura come una forma di concentrazione, di critica, anzi di concentrazione come forma di critica». Quando leggete, prestate attenzione. In fondo non è questo, la possibilità di prestare attenzione, di soffermarsi sui dettagli, di essere davvero presenti, la grande differenza tra la letteratura e la vita?

Dopo che Evgenij Onegin scompare nel settimo capitolo del capolavoro di Puškin, Tatiana inizia a visitare, come una sorta di pellegrinaggio, la sua tenuta abbandonata. Sfiora con le dita i segni che Onegin ha lasciato sul biliardo, la sua biblioteca, il suo frustino, «Chi era dunque lui?», si domanda. Non è quello che ci succede quando siamo innamorati? I dettagli della persona amata, i segni della sua assenza, di colpo ci appaiono illuminati, incandescenti, ci perseguitano con strazio e dolcezza. Ci facciamo caso. Di solito invece «la vita è piena di dettagli in modo amorfo, e raramente ci guida verso di essi, mentre la letteratura ci insegna a notare» scrive Wood.

La letteratura ci regala un potere a cui rinunciamo nella fretta di dover vivere: quello di riflettere sulla forma della nostra esistenza. È un momento di solitudine, un’interruzione nel flusso e nella condivisione. La grande differenza tra il romanzo e internet è che internet non finisce mai, non c’è fine alla chiacchiera. Per quanto possa scrollare, non arriverò mai alla fine della mia timeline di Twitter. Il romanzo invece è, appunto, una forma: qualcosa di chiuso e circoscritto. Una simulazione della vita nella sua interezza.

Lezioni di letteratura russa

Maestro supremo di quest’arte della concentrazione fu Vladimir Nabokov di cui Adelphi ripubblica ora Lezioni di letteratura russa, da tempo introvabili. Si tratta di una serie di lezioni su quel miracolo che fu la produzione letteraria russa: un’esplosione improvvisa che in poco più di un secolo, tra la prima metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, seppe accumulare una tale quantità di capolavori da farla affiancare, nella produzione narrativa, a letterature ben più estese nel tempo come quella francese o inglese.

Nabokov inizia così: «È difficile astenersi dal sollievo dell’ironia, dal lusso del disprezzo, quando si considera il disastro che mani, obbedienti tentacoli guidati dall’enfio polipo dello stato, sono riuscite a fare di quella ardente, fantasiosa, libera è la letteratura. (…) Accanto al diritto di creare, il diritto di criticare è il dono più ricco che la libertà di pensiero e di parola possano offrire. (…) Che esista un paese in cui per quasi un quarto di secolo la letteratura è stata costretta a illustrare la pubblicità di una ditta di mercanti di schiavi è difficilmente credibile per gente convinta che scrivere e leggere libri sia sinonimo di avere opinioni personali e dar loro voce».

Come si vede le Lezioni non sono meravigliose solo per l’acutezza dello sguardo che Nabokov posa su Puškin, Tolstoj, Gogol’ e compagnia, ma anche per la bellezza della prosa con cui lo fa: per la voce sferzante, vibrante e appassionata in cui si fondono etica e forma.

«Guardate il quadro non la cornice» scrive Nabokov a un certo punto. Che sintesi perfetta! Leggete i testi, non le interpretazioni dei testi che il potere dello stato o il moralismo «della critica antigovernativa e utilitaristica di orientamento sociale, i pensatori politici, civili, i radicali del tempo» vi vogliono imporre. Che gli vuoi dire a uno così?

Niente.

Ma a quelli che usano Nabokov oggi per silenziare qualsiasi discorso sulla cornice, ovvero sugli effetti che i testi hanno nel mondo, qualcosa da dire c’è. Nabokov fu uno scrittore di intelligenza sopraffina, in esilio dal suo paese (e dalla sua lingua) in mano a uno stato totalitario violento e ottuso, l’Unione sovietica: aveva tutte le ragioni per scagliare contro quel potere violento e ottuso la dirompente bellezza della forma. Ma quello spazio di libertà che la letteratura dischiude va sempre conquistato (e questo Nabokov, che della negazione della libertà ne ha patito le conseguenze, lo sapeva bene), allargato, spostato, reinventato.

Soprattutto per quelli il cui accesso a tale libertà non è un privilegio dato per scontato. Inutile allora offendersi, sentirsi derubati di qualcosa e zittirli a colpi di Nabokov facendo finta che la letteratura sia qualcosa al di fuori della storia, di puro e intoccato. Meglio mettersi in ascolto delle ragioni altrui – non muore nessuno – e ricordarsi di Kafka quando diceva: «Nella guerra tra te e il mondo, scegli il mondo».

Perché poi, presto o tardi, i libri vanno tirati fuori dalle casse e fatti respirare.

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