Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

(Dino Campana, La chimera)


Non credo minimamente che la pratica del viaggio, oggi, abbia perso la sua antica funzione di condanna. Come già accadeva in Omero, si va per mare perché un dio ti costringe a farlo, lo stesso dio che per vendetta non vuole tu faccia ritorno ai tuoi affetti, in quella casa materiale e immateriale che per una vita hai faticato a costruire. Se non intervenisse la costrizione di un ente superiore, niente sarebbe più gradevole del proprio paradiso personale. L’orto concluso del nostro piccolo, privato regno. Infine, la stasi.

Da questa prospettiva, la cosiddetta conoscenza che deriverebbe dall’errare è un mero accidente. Odisseo è costretto dal bisogno e dai suoi doveri di comandante a esplorare l’antro di Polifemo, a calarsi negli inferi tra le ombre dei morti. E anche quando si ostina a voler ascoltare il canto delle sirene ci viene il sospetto che lo faccia per apprendere l’esatta forma di un pericolo, piuttosto che per amore di conoscenza.

Nulla parrebbe mutato da allora. Anche nella contemporaneità viaggiamo perché siamo condannati a farlo. È una delle declinazioni principali della nostra attitudine al consumo: si viaggia semplicemente per poter dire di aver viaggiato, nell’illusione che la scoperta individuale delle cose corrisponda a una scoperta tout court. Ma nel mondo odierno questo è un esito a dir poco impossibile. Viaggiare è come digerire, e il suo racconto altro non è che un mero referente catabolico.

In cerca di Pan

A meno che non si ripercorra il tempo e lo spazio a ritroso, nel limbo delle macerie. Solo allora l’esperienza può farsi visione, ricerca dell’origine, speculazione sull’edera cresciuta intorno alla cattedrale letteraria, alla maniera di Eliot o di Pound.

Prendere il largo alla conquista di qualcosa di estinto, esattamente come fanno le voci che abitano In cerca di Pan di Filippo Tuena (nottetempo, 2023). Nell’ultimo lavoro dello scrittore romano un proteiforme turista – il termine non è casuale – è coinvolto in una navigazione verso l’oriente europeo di oggi e di ieri, tra la presenza viva dei mostri contemporanei e l’emersione improvvisa delle epoche passate e dei suoi fantasmi. Qual è l’identità del viaggiatore? L’inchiesta del libro si svolge anche, e soprattutto, intorno alla risoluzione di tale mistero.

Una fake news

La crociera allegorica che incornicia il racconto allunga le sue radici fino a Plutarco, esattamente al suo De defectu oraculorum. Nel corso di un inciso ammantato di una certa oscurità, vi si narrava di Tamo, mercante libanese coevo dell’imperatore Tiberio, che dalle rive dell’isola di Paxos sentì una voce gridare «Tamo, il grande dio Pan è morto».

Evento misterico che ha suscitato numerose interpretazioni, ma che mi ha sempre fatto pensare a uno scherzo tirato dal dio medesimo.

Durante la guerra contro i Titani, infatti, alleato con gli Olimpi, Pan aveva cacciato un urlo di tale potenza da far fuggire a gambe levate l’invincibile Delfine, madre di Tifone, custode dei tendini che quest’ultimo aveva strappato a Zeus.

Sappiamo così che la prima linea melodica del dio metà capra e metà uomo non era stata il frutto della virtù musicale, bensì della propria voce di bestia.

Insomma, le ambiguità, l’amore per i salti logici, un certo spirito nichilista imperniato sulla centralità oscura dell’atto sessuale fine a sé stesso – questo in parte il corredo degli attributi di Pan, mi facevano pensare che fosse stato proprio il dio con la sua possente voce a farsi gioco dell’ingenuo Tamo, usandolo per diffondere la falsa notizia della propria morte.

Ritrovare la fede

La ragione di questo bisticcio poteva essere semplice: bisognava dirsi morti perché i propri adepti provassero la necessità di rinnovare la fede.

Il dio più antico di tutti gli altri, che aveva diviso il latte di Amaltea con Zeus, che aveva messo il collare alla torma di cani di Artemide, che addirittura aveva insegnato ad Apollo a spiccare divinazioni, sentiva che era giunto quel momento. La sua esistenza doveva tornare in auge, il suo operato evidente agli occhi degli uomini e delle donne. Morire ne era la condizione assoluta. Vera o presunta che fosse la propria morte.

In cerca di Pan parrebbe collocarsi in questo schema dai toni impossibili e ultramondani. Sullo scenario di una navigazione tenebrosa e confortevole insieme (civiltà sepolte e vasche idromassaggio), dove trascorrono all’unisono un Ovidio contemporaneo diretto al suo esilio, una ninfa in incognito (testimone oculare e garante del mondo sommerso di cui sono alla ricerca gli ospiti della fatidica nave?) e un corteo di passeggeri ciascuno compreso nella propria missione: guardare da vicino il corpo morto di Pan, constatarne la verità, oppure tornare di nuovo a casa, un giorno, per annunciare a tutti che no, Pan davvero non è morto.

Scontro fra mondi

La forma che assume il racconto di Tuena è quella del prosimetro, e il rilievo di per sé non è solo classificatorio.

L’alternanza di prose e di versi materializza la convivenza di quei due mondi – remoto e contemporaneo – che si affrontano e si confondono nel corso della narrazione.

Da una parte la cronaca delle tappe nella Grecia della letteratura e del mito, la cadenza esistenziale del mare, le deviazioni, le curve senza soluzione tra passato e presente; dall’altra il linguaggio delle ombre, i loro feticci, il retaggio delle epoche cui sono appartenuti.

Voci limpide oppure corrotte ma che prendono parte nello stesso identico modo alla quête del libro o che vi hanno già preso parte, in un altro tempo, in un’altra vita.

Quello che eravamo

Chi è il Virgilio che conduce il lettore nella catabasi di Tuena? Proprio la ninfa, l’oggetto eterno del desiderio del dio, anch’ella alla ricerca del proprio autentico sé, del compimento della sua esistenza. La ninfa è il mondo: potremmo condensare così la sua molteplice natura.

È la condizione essenziale perché la vita non interrompa il proprio ciclo, lo scrigno che custodisce la scintilla originaria. È infine l’esatta metà di un’unione, la metà visibile, dove invece quella non visibile è proprio quel dio che ha scelto di nascondersi.

La ninfa incarna il rinnovamento di quella coincidenza tra lo spirito del paesaggio e il suo nucleo caotico, tra l’armonia del mondo nel suo compiersi e gli ibridi bestiali che lo attraversano.

Pan e il suo corteo di satiri sono i primi garanti di quell’armonia: mostrando lo scandalo della loro natura (non compiutamente uomo, non del tutto bestia, prede entusiastiche della libido) ci ricordano quel che siamo stati e che – nello spazio recluso dei nostri sogni – siamo ancora.

Canti orfici

La ninfa è il viaggio, nel senso che il suo corpo è  lo spazio fisico sul quale si muove la marcia dei pellegrini di Tuena. Essi osservano il paesaggio (che sia l’Arcadia o un’oscura cabina), ne fanno parte, ne colgono infine la consunzione. Sono, in tal senso, martiri.

Tocca a loro, infatti, l’ingrato destino di raccontare le cose non nel loro farsi, ma nella loro forma compiuta. La narrazione, in fondo, questo fa: immobilizza, imbalsama. A raccontarlo, questo Pan ramingo e nascosto, è già morto. Almeno nella costrizione della pagina.

Eppure un modo per scampare alla natura mortifera del racconto esiste. Ed è di nuovo la forma assunto dal diario di questa peregrinazione a venirci in soccorso.

La rarità del prosimetro ne avvantaggia in qualche modo la memorabilità, per questo scorrendo a mente i precedenti disseminati nel tempo emergono, quasi per evocazione, i Canti Orfici di un altro grande ramingo intento alla stessa opera di Tuena e dei suoi personaggi: Dino Campana, bastone e tracolla, a passo svelto sui valichi tra Italia e Svizzera mentre annusa l’aria alla ricerca dell’animale impossibile: «E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera».

Il dio è vivo

Chi era la chimera del poeta-viaggiatore? La bestia metà capra e metà leone oppure lo spirito del paesaggio, l’essenza compiuta dello spazio e del tempo che sfuggiva al suo tentativo di ritrarlo, di fermarlo? Oppure, ancora, una donna? Anche Campana seguiva il passo ineffabile di una ninfa in cerca del suo dio?

E se la chimera fosse stata il nome di una discrezione temporale, l’attimo in cui due entità diventano uno; se fosse stata l’involucro ineffabile e ai più invisibile in cui l’umano con le sue derive non si è ancora compiuto; se fosse stata il sinodo in cui Pan e la ninfa sono ancora indistinti, ancora non hanno preso a rincorrersi tra la pieghe della storia?

Una cosa è incontrovertibile: il dio ha sì cessato di mostrarsi, lasciando il mondo degli uomini, la terra calpestata dai mortali, ma è vivo, e proprio per questo non può essere fissato nella parola. L’oggetto del suo desiderio, il suo complemento – ninfa o poeta che sia – vaga orfano per il mondo nell’attesa di ascoltare di nuovo il suo canto. O il suo urlo feroce.

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