Del rap in Italia si parla spesso, lo ascoltano nove ragazzi su dieci, occupa da anni le prime posizioni delle classifiche, è un’industria che fattura milioni, eppure «siamo l’unico paese che non sa un cazzo di rap».

Sono parole di Cosimo Fini, in arte Guè, veterano della scena hip hop con dieci album solisti in 14 anni e ora un tour sold out appena terminato nei palazzetti iniziato sabato 3 maggio all’Unipol Forum di Milano.

Filosofia rap

Ecco, se uno volesse davvero sapere qualcosa di questa cultura di origine americana, ma ormai globalissima, potrebbe partire proprio da lui, Guè (diminutivo di Guercio per via di una ptosi alla palpebra), che dagli esordi con i Club Dogo a oggi rappresenta al meglio la “filosofia” rap, con tutte le sue contraddizioni.

Brevemente: nasce a Milano il giorno di Natale di 45 anni fa in un contesto borghese, il padre Marco Fini è un giornalista – scrive saggi sulla strage di Piazza Fontana e sul colpo di stato in Cile del 1973 – come la madre, Manuela, che spera che il figlio si laurei in filosofia, visto che lei aveva abbandonato a pochi esami dalla fine.

Cosimo le spezza il cuore gettando la spugna di fronte allo scoglio di Essere e Tempo di Heidegger. Per il rap non molla solo l’università, ma l’universo di appartenenza, quella Milano Ztl radical chic che da sempre è lo spauracchio e il bersaglio di sfottò di Matteo Salvini: sarebbe diventato un editor precario e sottopagato in una casa editrice, avrebbe gestito le proprietà immobiliari affittandole a caro prezzo a studenti delle Bocconi, avrebbe sposato una Lucrezia o una Virginia invece di far serata con Deborah e Samantha (l’uso ironicamente “classista” dei nomi torna spesso nei suoi brani musicali), avrebbe messo su casa, una station wagon e un cane, estate in Toscana, settimane bianche, sempre con l’aiuto economico dei genitori, come da copione.

E invece no: se il rap parla della strada, è lì che deve immergersi, frequentando le piazze e i balordi che le popolano, come racconta nel libro La legge del cane (Add, 2010), scritto insieme al socio Jake La Furia.

L’obiettivo è guadagnarsi il rispetto e la credibilità di strada, quella realness che è alla base dello storytelling del rap, all’epoca dei suoi esordi un genere alternativo, di nicchia, che ha come palco qualche centro sociale e poco più.

Visto da qualche lustro di distanza, il percorso tra i sentieri selvaggi di Guè, il suo accreditarsi come “tamarro” (anello evolutivo che precede il “maranza”) e soprattutto come cultore e studioso di un linguaggio pronto a esplodere, fa di lui una sorta di “paziente zero” di quello che sono diventati lo spettacolo e la comunicazione oggi in Italia, nonché un monito per quella sinistra liberal di molti suoi ex compagni di liceo – il classico Parini – incapace di farsi ascoltare e votare fuori dalla cerchia del Naviglio.

Cresciuto nell’era Berlusconi, Guè tra i primi riconosce nella spacconeria e nell’ostentazione della ricchezza del premier i segni del gangsta-rapper («La vita è solo troie e milioni, lo dice Ice Cube e pure Berlusconi» è una sua rima nel pezzo Il ragazzo d’oro), arrivando a fidanzarsi, a mo’ di performance artistica, con Nicole Minetti e a incontrarlo in una delle sue ville vestito con una tuta di cachemire.

Bullizzare i bulli

Questi e altri aneddoti vengono ora dispensati da Guè nelle decine di podcast, da Tintoria a BSMT, in cui si fa intervistare e che appaiono nei feed dei nostri social. Ore e ore di racconto in cui parla di tutto con ironia, cinismo e un po’ di arroganza da rapper, polemizzando con chiunque, da Elio che dice che il rap non è musica – e «poi fa il giudice di un programma che è una monnezza» – ai boomer Manuel Agnelli e Morgan.

Se i podcast di interviste sono i nuovi talk (one man) show, è perché lì raramente si parla di politica, le notizie sono al massimo quelle della celebre colonnina destra dei siti di informazione. Si fa gossip, insomma, e Guè, rapper dalla penna mai banale, sa muoversi benissimo nelle sabbie mobili della comunicazione pop: basta vedere come risponde sui social agli hater, una rissa permanente a botte di emoticon con faccina che ride, l’unica regola è bullizzare i bulli.

All’utente di X che lo critica per un suo recente album scrivendo «Hai 58 anni, fatti l’esame della prostata», Guè risponde: «Ne ho 40, ti compro e ti metto in giardino». E così via, l’aggettivo più usato per i suoi commenti è “subumano”, fino a raggiungere le vette dei trend topic dei social, oltre quelle delle classifiche discografiche. Se il politicamente scorretto fa parte della poetica del rap, anche le sue rime ne sono piene, ma mai in maniera banale, e senza nessuna rivendicazione anti woke tipo “Non si può più dire niente”.

L’aver scelto da che parte stare – «gangster, pusher, hustler, escort/ Aspettano il mio disco, mi chiedono quando esco» – lo colloca direttamente fuori dal dibattito sulla morale, quasi Guè fosse il personaggio di un film, tra Scorsese e Vanzina, e forse è per questo che è piaciuto così tanto al regista Paolo Sorrentino, che l’ha intervistato per Il Venerdì di Repubblica attraverso le citazioni dei suoi pezzi, prediligendo sempre quelle più spaccone, più Jep Gambardella, tipo «A Ginevra non vi ho mai visto in boutique».

Modello, io sono io... e voi chi cazzo siete? Ma col disincanto e l’ironia di chi, strascicando la rima, non sembra crederci fino in fondo, è un gioco dove a vincere è sempre lui. Gli esempi sono molteplici, il bersaglio quasi sempre lo stesso: un ipotetico maschio etero bianco in odor di incel che vede nel rapper che ostenta donne, status, soldi e potere il nemico numero uno.

Non le donne, che nelle sue canzoni più recenti e adulte sono romanzate nelle vesti di sirene-escort e spogliarelliste (non a caso il titolo dell’ultimo album Tropico del Capricorno cita Henry Miller) mentre lui si ritrae come un Casanova da night club, che va con tutte perché non riesce mai a trovare il vero amore, se non quello senza eros per la madre e la figlia, Pequena (ha già un nickname hip hop).

Lontano dai vittimismi

Certo non lo troverete a un dibattito sul gender gap, il femminismo nelle sue rime è meno che un’astrazione («Ho comprato un Damien Hirst con la mia tipa gallerista/ Dalla Russia con amore il rapper più femminista») che illumina con sarcasmo la fine del maschio.

I suoi pezzi più introspettivi sono sedute di autocoscienza in cui può solo autoassolversi, stando alla larga dal vittimismo dei coetanei («Vorrei mollare tutto/Ma poi penso tutto cosa», rappa in Astronauta) e ricominciare da capo, come ha fatto a inizio maggio al Forum di Milano presentandosi sul palco con tutti i personaggi delle sue hit: lo sugar daddy elegante che abbiamo visto a Sanremo con Shablo e Tormento, il tamarro palestrato da discoteca, il ghetto boy, il sexy lover di bianco vestito, comunque e sempre eccessivo, pop nella sua accezione più contemporanea, a incarnare con tutte le sue maschere lo Zeitgeist arci italiano e non solo.

Quando sui maxi schermi brillano hamburger e coca-cola d’oro fatte con l’Ia il pensiero va alla spacconeria dei fotomontaggi di Donald Trump, alla manipolazione delle percezioni di Elon Musk, quasi una sottilissima critica al sistema in forma di intrattenimento.

Nessun proclama, perché il rap è proclama per definizione e nessuno meglio di Guè sembra conoscere le regole del gioco: specchio riflesso, nel suo rap siamo come vogliamo vederci, con tutte le nostre debolezze da uomini medi («scemo io non gioco a padel», rappa in un featuring dell’ultimo disco di Neffa).

Sotto palco insieme a Deborah e Samantha – o quell’altra a cui anni fa mandò una sua dick-pic pubblicandola sulle stories per sbaglio, un epic fail mediatico – ci sono pure Lucrezia e Virginia, promesse spose a cui oggi, come fa spesso nelle interviste, può raccontare che a differenza loro è riuscito a fare un sacco di soldi, aiutando pure i genitori nel momento del bisogno, orgoglio del rapper esule dalla decadente borghesia dei mantenuti a vita.

Il tour prosegue anche questa estate (prima data il 30 giugno al Flowers Festival di Collegno), ci saranno altri podcast, altri hater, altri album (venerdì 30 maggio esce KG, un joint album col rapper Rasty Kilo), il cinema, Netflix o Amazon, senza contare i business come il marchio di abbigliamento, quello di tequila, i ristoranti e le palestre. Lui non lo sa ancora, ma l’obiettivo è finire protagonista di una puntata del programma di Aldo Cazzullo Una giornata particolare. Potrebbe accadere.

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