Un reportage di Mark Arax raccontava il Camp Fire del 2018 con il timore che non restasse il più devastante. Le fiamme abitavano gli incubi dei californiani già da tempo. Viaggio nei titoli che erano stati facili profeti
«Quando arrivai a Paradise, l’incendio più devastante nella storia della California era stato domato da quattro mesi e la dorsale che separa i due canyon e i relativi fiumi, dopo essere stata distrutta dal fuoco, era battuta dalla pioggia». Questo è l’incipit di un reportage dello scrittore e giornalista californiano Mark Arax, pubblicato su Passenger California (Iperborea) nel 2022. Racconta il Camp Fire, che si abbatté sul Nord della California nel 2018 e per qualche tempo è stato definito il più devastante nella storia della California. «L’incendio del secolo?», si chiede Arax nel titolo, con un punto interrogativo che annuncia già la risposta. E noi oggi la sappiamo.
Il Camp Fire è stato l’incendio più devastante nella storia della California, fino a quel momento. Già adesso quel primato è messo in discussione dalle fiamme che da un mese a questa parte si alzano attorno a Los Angeles. Entrambi sono fra i primi esemplari di una nuova generazione di incendi, incendi enormi, capaci di dar vita a nuvole di fuoco, i pirocumulonembi, e a spettacolari e inquietanti tornado di fuoco. Sono resi possibili dalla combinazione di elementi diversi, fra alternanza di grandi piogge e siccità, venti fortissimi e temperature oltre la media. Come scrive Arax sono eventi senza precedenti, ma destinati a diventare comuni.
In un libro pubblicato sempre da Iperborea, L’età del fuoco, il giornalista canadese John Vaillant racconta di un episodio simile, avvenuto nel 2016 a Fort MuMurrey, in Canada: gli abitanti della cittadina, che fu completamente devastata e non si riprese mai del tutto, chiamarono quell’incendio diverso da tutti gli altri incendi “il Bestione”.
Perché era affamato, perché sembrava attaccare con ordine e tattica, e perché era un demone impossibile da domare. Non si spengono incendi come questi. Si possono prendere contromisure, nel modo, nei luoghi e nei materiali con cui si costruisce. Si possono in parte prevenire i danni. Ma non si possono addomesticare. È questo che dobbiamo imparare: che non tutto si può addomesticare.
Certi demoni antichi
Incendi così, proprio come demoni, abitano le paure, i sogni e le storie dei californiani già da parecchio tempo.
Il romanzo La parabola del seminatore della scrittrice statunitense Octavia Butler è uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1993 e in queste settimane viene citato su tutti i giornali e i social come profetico.
Siamo in una California del futuro, e quel futuro è proprio a cavallo fra il 2024 e il 2025. Siccità, crisi climatica, divisioni politiche e disuguaglianze economiche hanno reso quella regione inospitale e le persone si sono rinchiuse in comunità protette e isolate da alte mura. Non si esce mai. Il fuoco è diventato una droga che rende piromani.
Nel mondo là fuori, oltre le mura, cambiamento climatico e piromani paiono allearsi nell’arte di appiccare incendi. Il fumo nasconde crimini e misfatti in un mondo fatto ormai solo per i ricchi. Ma c’è anche qualche granello di speranza: Laure, la protagonista, ha quindici anni e il desiderio di creare una nuova fede e una nuova comunità, ingredienti necessari per riuscire a immaginare un futuro.
Oggi sembra a tutti di sentire l’eco di quel romanzo, come una rappresentazione simbolica di quello che sta accadendo oggi, una profezia sfocata ma in qualche modo corretta e utile oggi ad accompagnare la realtà. Un pezzo di una più ampia cosmogonia di personaggi e immagini, fondamentali per interpretare il presente della crisi climatica.
Il Cedar Fire
Esattamente dieci anni dopo l’uscita della Parabola del Seminatore, il sociogeografo Mike Davis raccontava un altro incendio, un reportage apparso allora sul Manifesto: «È mattina a San Diego. Il sole è una sfera arancione, spettrale, minacciosa come l'occhio di una zucca intagliata e trasformata in lanterna. L'incendio sul fianco della Otay Mountain, che arriva fino al confine messicano, genera un grosso fungo di fumo biancastro. Sembra il Vesuvio in eruzione. Nel sud della California, questo potrebbe essere l'incendio del secolo. Non c'è modo di contenere le fiamme, e si prevede che questo clima infernale, che favorisce gli incendi, durerà ancora per giorni. Questo, naturalmente, è il momento dell’anno giusto per la fine del mondo».
Sembra un romanzo, era la realtà del Cedar Fire, considerato, anche quello, fra i più distruttivi della storia della California. Pare un romanzo di climate fiction o un’allusione al mondo in cui viviamo oggi, di incendi che ogni volta sembrano vincere un primato. Il 2003 fu una sorta di preludio delle ondate di calore di questi ultimi dieci anni, ci furono record di temperature dappertutto, in particolare a Los Angeles. Da allora si sono inasprite ondate di calore e incendi in California e allo stesso modo si è intensificata la loro presenza nella mente e nelle pagine degli scrittori californiani.
Le fiamme al Pulitzer
Nel 2019 Richard Powers vinse il premio Pulitzer per Il sussurro del mondo: un romanzo disseminato di incendi che «saltano fuori all’improvviso». Non incendi enormi ma costanti e invadenti nella quotidianità di personaggi che sono in parte umani e in gran parte alberi. Ci sono un castagno, un gelso, un acero, una quercia e una sequoia gigante di nome Mimas. E poi una ricercatrice di botanica e guardaboschi, un entomologo, degli attivisti ambientali che smettono di essere pacifisti. Ci sono anche opuscoli dal titolo Le quattro regole dell’incendio doloso. Appiccare il fuoco con timer elettrici. Ma è l’alleanza fra alberi e umani l’amuleto che lascia il romanzo di Powers. Un’alleanza di protezione e insegnamento reciproci, per stare e trovare senso in questa California arida e infuocata.
L’esempio più recente di questa letteratura degli incendi si intitola Diluvio, l’immenso romanzo di Stephen Markley uscito proprio lo scorso autunno. Tanti personaggi e filoni diversi, ma un capitolo sembra sia stato scritto subito dopo e non subito prima di questo gennaio 2025. Cathrine, figlia dell’oceanografo Tony Pietrus, si trova in una Los Angeles circondata dalle fiamme, gran parte della città è sfollata, lei non risponde al telefono, il padre è in panico.
«Los Angels si stava svuotando. Provò a chiamare i pompieri, ma gli rispose una voce registrata. Ormai ogni singolo servizio d’emergenza in città era impegnato. Poi le notizie cominciarono ad accavallarsi. “Ci dicono che il fuoco ha scavalcato la 101 dalle parti dell’Hollywood Bowl e circa tredici tra i vigili del fuoco e i soccorritori hanno perso la vita. A quanto pare le fiamme hanno superato il Cahuenga Pass quando è aumentata la velocità del vento. Ora soffia a quasi centotrenta chilometri orari e sta spingendo le fiamme verso la città…”».
Cinque milioni di persone devono evacuare le proprie case ma della figlia di Tony Petrus ancora nessuna notizia, tranne il segnale di un’app di tracciamento secondo cui Cathrine dovrebbe trovarsi ancora a casa sua. Tony salta su un aereo, poi su un altro aereo, poi su una macchina, riesce a lanciarsi fra le fiamme e i pompieri che circondano la città, a trovare la figlia esanime, a nascondersi con lei nei sotterranei di una scuola. Ha l’aria di una storia ricavata dall’incendio di questo gennaio, assomiglia a un’accurata profezia. Il fuoco di Markley è un fuoco del presente o di un futuro tutto sommato simile al presente.
Un mondo cambiato
Romanzi come questi consentono di porsi la giusta domanda, ed è una domanda che cambia nel tempo. Se prima ci si chiedeva, come si sopravvive? E, cosa c’è dopo? Ora la questione è cosa c’è dentro la catastrofe. Il nostro immaginario si sta adattando e si popola di demoni che trent’anni fa appartenevano a un futuro vicino, ora semplicemente al presente. È come se in questi decenni ci fossimo preparati lentamente a lasciare il mondo ordinario per approdare in questa lunga e profonda fase di trasformazione in cui il clima cambia e con lui le priorità e le risorse su cui si fondano valori e influenze politiche. Non è la fine del mondo, è la fine del mondo come lo conosciamo. È una fase, ci abitiamo dentro.
In un articolo uscito per Essence Magazine nel 2000, Octavia Butler osservava: «Naturalmente, scrivere romanzi sul futuro non mi dà nessuna abilità speciale per prevedere il futuro. Ma mi incoraggia a usare i comportamenti del nostro passato e del nostro presente come guida per il tipo di mondo che sembriamo star creando».
Nella Parabola del seminatore, Butler pensava a Reagan quando scelse per il suo romanzo un Presidente, Donny, che prometteva di rendere gli Stati Uniti “di nuovo grandi”. È morta nel 2006, non ha vissuto abbastanza per veder avverarsi nemmeno la prima presidenza di The Donald, ma il fatto è che non c’era nessuna profezia. Bastava guardare bene, perché era tutto già lì dentro. E più ci avviciniamo, meglio la vediamo.
Le immagini e i personaggi della cosmogonia si fanno man mano più nitide e realistiche.
Abbiamo bisogno di storie per sopravvivere a questo momento di «fine del mondo come lo conosciamo», di profonda trasformazione che abita anche noi e in cui ci sono incendi che formano nuvole e tornado di fuoco. Ci troviamo nel pieno di questa transizione e tutte queste storie sono i primi pezzi della cosmogonia nuova e potente che ci serve per viverci dentro. Dentro, perché non è come se dovessimo attraversare un fiume da una riva all’altra: lo dobbiamo abitare, questo fiume.
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