Durante una guerra, ognuno combatte come può. Per questo la protesta contro il marchio Chanel delle signore (che tutto il mondo ha definito influencer ma che poi hanno un lavoro, per la verità: attrici, designer, ecc) che hanno imbracciato grandi forbici da giardino per mettersi a fare a pezzi una sola (attenzione) delle loro borse Chanel è meno fru fru di quel che si potrebbe pensare.

Trattasi, lo sapete, di uno stizzito segno di protesta contro il bando “russofobo” della maison francese alla vendita a consumatrici/tori di nazionalità russa di qualsivoglia loro prodotto sopra i 300 euro, in qualunque parte del mondo.

Per prima cosa va considerato cosa può voler dire per una fashion victim violare il corpo (di pelle) di un oggetto d’affezione e transazionale di questo tipo. È segno di una rabbia incontenibile, tanto che per la maggior parte dell’“azionismo” che vediamo su Instagram si limita a troncare la parte superiore di chiusura della stessa (al limite ricucibile e quindi persino più cool grazie alla cicatrice, tra qualche anno).

E ci dà la misura di come, dentro una società distrutta e immensamente polarizzata da decenni quale quella russa, sia questa – quella del lusso estremo, buttato in faccia in tutto il mondo, ultrabling – una delle dimensioni centrali della realtà.

Realtà molto solida, eccome, che i produttori di lusso mondiale conoscono bene e di fronte alla quale si sono inchinati sostanzialmente dall’inizio degli anni Novanta.

Guerra a colpi di lettere

Secondo Berstein i compratori russi nel mondo costituiscono una fetta che oscilla dal 4 all’8 per cento del consumo globale di beni di lusso. Ed è una cifra in discesa rispetto al passato recente.

È una irreale realtà molto solida quindi quella che porta sia le tagliatrici di borsette sia la casa di moda a prendere entrambe decisioni molto nette. In quel mondo, ripetiamo.

Intanto è forse una buona idea concentrarsi su come questa guerra russo-ucraina si combatta a colpi di lettere, inteso come lettere dell’alfabeto: le due C incrociate di Chanel, la Z sparata ovunque specie a Mosca (compresa quella fatta con le luci degli uffici sul grattacielo, circolata qualche giorno fa), le due lettere – una “I” e una “N” – che i più buoni dicono compongano il pazzesco simbolo del battaglione Azov (presumibilmente una proto-svastica invece).

Come sempre – e come nel campo della moda dove la guerra tra le case è feroce da tutti i punti di vista – il terreno di battaglia pullula di simboli/stemmi/brand: da quelli dei vari battaglioni appunto a quelli dei mercenari e contractor, che ricordano certe marche di skate anni Novanta, vedi Blackwater.

Un cretino direbbe che si tratta di un conflitto semantico, e vabbè. Ma simbolico certamente sì. E ci dice molto sul “valore” che magicamente assumono le cose e le persone quando portano su di sé la potenza magica che è incorporata nel marchio stesso.

 

Rischio discriminazione

Per vincere la guerra le magre signore lo spezzano, quasi a dividere le due C. Roba arcaica, attenzione. L’amuleto/brand costruisce come sappiamo fin da bambini/e o adolescenti la nostra identità.

Ed è su questo piano che va anche condotto il ragionamento, un piano strettamente giuridico, se volete astratto: dal momento che lo scandalo del non acquisto (ovvero un trattamento da poveracce, puro sacrilegio) è avvenuto non a caso a Dubai e a Parigi – perché di global spenders all’arrembaggio stiamo parlando – c’è un rischio potenziale di discriminazione, e di cause per danni da discriminazione contro le case di moda, se non dimostrano di controllare i clienti o le clienti in modo neutrale (secondo l’autorevole parere di Susan Scafici, fondatrice e direttrice del Fashion Law Institute alla Fordham Law School, come riporta “Business of Fashion”).

In sostanza l’identità e la provenienza geografica vanno chiesti a tutti. La casa di moda si è affrettata a dire che «accogliere i clienti, non importa da dove vengano, è una priorità per Chanel», che tuttavia ha deciso – a differenza di altri marchi di lusso – di applicare l’interpretazione più restrittiva alla direttiva internazionale, ovvero includere i punti vendita all’estero dentro l’embargo.

Tutto questo, oltretutto, accade mentre le vere vendite avvengono imperterrite nel secondo mercato e nel re-sale (se cercate anche adesso troverete comunque foularini, pochette o altro a meno di 300 euro, tra l’altro), altra sfaccettatura del mercato vero che la polemica non considera.

Tuttavia il fatto che l’accesso da/a Chanel sia diventato una sorta di lasciapassare diplomatico in negativo, un documento giuridico da esibire durante questa guerra è un fatto da considerare con meno leggerezza, no?  

Coco e il Terzo Reich

E per finire c’è un vero casino: Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, ha risposto con guizzo senza pari alla nuova policy di Chanel evocando che Coco Chanel sarebbe stata una collaboratrice del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale e che dunque non comprare Chanel sia in linea con la politica di “de-nazificazione” dell’Ucraina messa in atto da Putin. Wow.

Ora, che siano frottole o meno, le pubblicazioni sulle connessioni tra Madame Coco con il regime nazista non sono poche. E si stanno intensificando con il tempo. Tutto tirato forse per i capelli, certamente, ma tant’è. Siamo nel mezzo di orrori gravissimi perpetrati dall’invasione russa, non ce lo possiamo scordare.

Tra questi, c’è una foto-simbolo della mano del cadavere di una ragazza a Bucha che sarebbe stato riconosciuto attraverso lo smalto delle sue unghie, e a rivendicarlo è stata sui social la sua estetista. Insomma, i nodi sono molti, stratificati e certamente più intricati del mero incrociarsi di due consonanti.

© Riproduzione riservata