Un uomo china il capo di fronte a una folla urlante. Il cappello a punta che porta, alto più della metà dell’uomo stesso, è quasi comico, ma la miseria abietta sul suo volto svuota la scena di qualsiasi umorismo. È il 1966 nella Cina maoista e l’uomo è vittima di una “sessione di lotta”, un momento durante il quale le vittime sono pubblicamente umiliate e insultate per i loro crimini, reali o immaginari. Soltanto dopo aver ammesso la trasgressione e chiesto perdono il maltrattamento può terminare.

Mao e i suoi compagni di rivoluzione avevano compreso il potere dell’umiliazione della folla e lo aveva usato per terrorizzare il paese in conformità ideologica. Temo che questo impulso – il riflesso di usare l’umiliazione pubblica come strumento per epurare la società dagli apostati e dalle loro idee – sia tornato. Questa volta però negli Stati Uniti.

Sia chiaro: l’orrore della Cina di Mao è stato unico. Non sto facendo un paragone con la morte e la distruzione che ha causato o con la severità delle punizioni che le folle hanno imposto. Faccio piuttosto un parallelismo (cosa che diversi giornalisti e commentatori hanno già fatto, incluso l’accademico cino-americano dallo pseudonimo Xiao Li) con un impulso: la tendenza a umiliare e terrorizzare chiunque sia ritenuto colpevole anche della minima trasgressione. E come nella Cina rivoluzionaria, la folla negli Stati Uniti oggi non fa distinzioni. Con il loro giusto fervore, inseguono i colpevoli, gli innocenti e coloro che in qualche modo si frappongono.

Oggi la folla agisce principalmente sui social media, il che significa che l’attacco può arrivare per chiunque, in qualsiasi momento, con poco o nessun preavviso. I critici umiliano la propria vittima fino a quando l’imputato non chiede scusa per mettere fine all’incubo. Poi, la folla o rincara la dose, oppure passa oltre.

A lungo andare le scuse ossequiose per crimini immaginari aprono la strada a un ciclo distruttivo di inquisizione. Se le persone coraggiose non si alzano in piedi per dire “basta”, la folla continuerà a schiacciare le vittime, lasciandosi alle spalle una scia di carriere, reputazioni e una cultura di conformità.

Quindi, se la folla si scaglia contro di te e tu ritieni di non aver fatto nulla di male, ho una proposta semplice: non scusarti.

Hai fatto qualcosa di male?

Non importa da dove vengono le accuse, se dalla sinistra o dalla destra, dagli alleati o dagli avversari. Se ti trovi a essere accusato pubblicamente, la prima cosa da fare è chiederti seriamente se effettivamente hai fatto qualcosa di sbagliato. Se è così, allora chiedi scusa. Riconoscere i propri errori è un segno di maturità e può guarire. Ma se non è così, non farlo. Difenditi contro la folla, e se questo è chiedere troppo, disconnettiti e lascia che i critici twittino nel vuoto.

Pensiamo al caso di Lin-Manuel Miranda, che ha scritto il recente adattamento cinematografico del suo musical di Broadway di successo, In the Heights. Il film è in gran parte una celebrazione della cultura latina e degli immigrati e presenta un cast quasi esclusivamente latino. Alcuni critici, però, hanno notato l’assenza di attori neri e hanno accusato Miranda di colorismo. Le accuse non erano accompagnate da nessuna prova e avevano come bersaglio il regista, che è più famoso per aver scritto Hamilton, un musical in cui sono stati scelti attori neri, asiatici e latini nel ruolo dei padri fondatori dell’America. Ma a quanto pare Miranda sentiva di dover dire qualcosa, perché presto ha twittato delle scuse per l’assenza nel film di «una rappresentazione afro-latina dalla pelle scura».

La notte successiva le scuse di Miranda, l’attrice Rita Moreno, che è portoricana, è comparsa nel talk show di Stephen Colbert e ha detto che non c’era bisogno che Miranda si scusasse. «Sto semplicemente dicendo: non puoi semplicemente aspettare un po’ e lasciar perdere? Davvero se la stanno prendendo con la persona sbagliata». La folla allora si è subito scagliata contro di lei e il giorno dopo la comparsa da Colbert, Moreno ha twittato delle scuse per aver difeso Miranda. Ha iniziato con l’autoflagellazione che è diventata così familiare: «Sono così delusa di me stessa».

Per fare una dichiarazione così potente sul talk show notturno più seguito della nazione, è ragionevole presumere che Moreno dovesse aver compreso il dibattito sul “colorismo” e abbia preso in seria considerazione la sua posizione. Perché, allora, è stata così rapida nel ritrattare la sua dichiarazione e fare ammenda? Il rasoio di Occam ci direbbe che le scuse di Moreno, come quelle di Miranda, sono state semplicemente una capitolazione per evitare l’ira di internet.

Se mi sbaglio e Miranda e Moreno dopo una seria considerazione hanno veramente concluso che i critici avevano ragione, le loro scuse sono lodevoli. Ma data la natura fragile delle accuse contro Miranda e Moreno e il modo frettoloso con cui hanno fatto retromarcia, sembra più probabile che abbiano reagito semplicemente per placare la folla. Se questo è vero, avrebbero dovuto difendersi e rifiutare di scusarsi.

Controversie artificiose

Lo stesso vale per molti altri personaggi pubblici che si sono scusati per controversie apparentemente artificiose. A febbraio, ad esempio, l’esercito indignato ha concentrato la sua ira su PJ Vogt, co-fondatore ed ex conduttore di Reply All di Gimlet Media, un podcast con oltre quattro milioni di ascoltatori mensili. Le presunte trasgressioni di Vogt sono state inizialmente diffuse nel thread Twitter di un ex collega che lo accusava di contribuire a una «dinamica tossica in Gimlet», opponendosi agli sforzi di sindacalizzazione nell’azienda e remando «contro i molteplici sforzi per diversificare il personale e i contenuti di Gimlet». La folla si è mobilitata, apparentemente non preoccupata della mancanza di prove o di dettagli dell’accusa. Neanche Vogt ha esitato e il giorno dopo ha twittato le sue scuse: «Ho riflettuto sul mio comportamento e me ne vergogno. Avrei dovuto riflettere su cosa significa non essere dalla stessa parte di un movimento in gran parte guidato dai giovani produttori di colore nella mia azienda. Non l’ho fatto. Questi errori sono tutti miei». Nello stesso messaggio Vogt ha annunciato che avrebbe lasciato Reply All: «Ho chiesto al gruppo il permesso di andarmene. Non credo che nessuno abbia bisogno che io occupi spazio in questo momento. Mi dispiace per tutti quelli che ho deluso”.

Sorprendentemente, dopo l’intero calvario – le accuse iniziali su Twitter, le scuse di Vogt, una puntata di Reply All di riflessione personale e la notevole attenzione dei media tra cui gli articoli sul New York Times, Vanity Fair, Vulture e il Los Angeles Times – nessuno ha fornito le prove che si trattasse di un reale comportamento scorretto sul posto di lavoro. Un secondo articolo sul New York Times riportava persino che Vogt si sarebbe assunto «la colpa di una situazione che è stata, secondo molte persone, creata alla fine dai fondatori di Gimlet». Sembra che la peggiore offesa di Vogt sia stata la sua ferma opposizione alla Gimlet Union.

Davvero questa cosa meritava delle scuse pubbliche? Io sostengo di no. Data la sua reazione frettolosa alle critiche e la mancanza di prove a supporto di una tesi di reale cattiva condotta, sembra che Vogt si sia scusato per sedare la rabbia di internet e sottrarsi dai riflettori. In tal caso avrebbe dovuto respingere la folla e difendersi. Perché il ciclo della vergogna e delle scuse si fermerà solo se persone innocenti e coraggiose si rifiutano di umiliarsi chiedendo perdono.

Il caso Marshall

Chi è all’altezza di questo ideale è ragione di speranza. Una persona del genere è Winston Marshall, l’ex suonatore di banjo della band dei Mumford and Sons. La folla si è gettata su Marshall dopo un suo tweet in sostegno di Andy Ngo, un attivista controverso che è diventato famoso documentando gli eccessi dell’estrema sinistra. Marshall racconta la sua esperienza: «È come avere una frotta di serpenti che ti attacca su ogni aspetto della tua vita. Mi chiamavano fascista, poi nazista, e tutto questo genere ridicolo di cose. Poi iniziano ad attaccare i tuoi amici, i colleghi e le loro famiglie. È una modalità di intimidazione molto efficace perché una cosa è quando attaccano te. Ma quando vengono attaccate le persone che ami, le vuoi difendere».

Marshall ha preso seriamente in considerazione le critiche e si è scusato. In seguito però se ne è pentito: «Ero sinceramente disponibile a capire cosa c’era di offensivo nel mio tweet e volevo analizzarlo. Ma ho visto sempre più chiaramente, ho percepito di aver preso parte a quella bugia che sostiene che l’estremismo (di sinistra) non esiste o è una forza positiva. E questo ha davvero iniziato a turbare la mia coscienza».

Verso la fine del mese scorso Marshall ha cancellato il tweet di scuse e ha pubblicato una lettera in cui spiegava che lasciava la band in modo da poter parlare liberamente senza che i suoi compagni ne «soffrissero le conseguenze». Rimanere e autocensurarsi, ha detto, «consumerebbe il mio senso di integrità e roderebbe la mia coscienza».

Per fermare il ciclo delle scuse insincere, più persone devono seguire l’esempio di Marshall e difendersi di fronte all’umiliazione pubblica. Se continuiamo a censurare le opinioni impopolari e a mettere a tacere chi le sostiene rinunciamo allo sforzo di costruire la conoscenza alla base di un dibattito costruttivo e un discorso aperto. Dovremmo invece usare i più grandi strumenti del liberalismo – la logica, le prove e la persuasione – per distinguere i fatti dalla finzione e sfidare le idee a cui ci opponiamo. Quindi se la folla ti attacca, chiediti se effettivamente hai fatto qualcosa di sbagliato. Se è così, vai avanti e chiedi scusa. Ma in caso contrario, sii coraggioso e mantieni la tua posizione.

 

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