Martínez, Çalhanoğlu, Acerbi e Frattesi sono archeologi calcistici, portatori d’antichità, che possedendo il passato hanno battuto il futuro del Barcellona e di Yamal in una delle più belle partite della storia della Champions League. I quattro pedatori dell’Inter sono calciatori antichi, per volti, azioni, posizioni e caratteristiche, quasi dei panda in un mondo che muta
Lautaro Martínez, Hakan Çalhanoğlu, Francesco Acerbi e Davide Frattesi sono i pedatori del Barça perduto, archeologi calcistici, portatori d’antichità, che possedendo il passato hanno battuto il futuro del Barcellona e di Lamine Yamal l’altra sera, in una delle più belle partite della storia della Champions League.
I quattro pedatori dell’Inter sono calciatori antichi, per facce e gesti e azioni e posizioni e caratteristiche, quasi dei panda in un mondo che cambia velocemente, anzi che rotola via. Per questo la partita è stata epica, un rovescio continuo, dovuto anche agli errori e alla disperazione, ma per dei calciatori di un mondo che finisce che volete che sia?
Lautaro
Ha cominciato Lautaro Martínez che sembra uscito da Mission e dalle cascate dell'Iguazú, uno degli indios del film di Roland Joffé, una faccia antica che comporta un coraggio fuori dal comune, una resistenza al dolore e una vocazione al gioco di squadra. Lautaro Martínez sta nel guado del 3-5-2, un modulo antico, e ci sta con una quota che eccede la misura: è una punta e mezza perché è anche un rifinitore oltre ad essere un trascinatore, non aspetta solo il pallone, ma crea le condizioni per farselo restituire e segnare, o mette in condizione di cedere il pallone al compagno che gli sta davanti, in questo caso Marcus Thuram. Lautaro è un ossimoro: gioca in un ruolo da assolutista senza essere mai un assolutista.
La sua presenza in campo è una presenza alla fine del mondo, una tirata estrema del suo corpo, oltre il dolore, che porta al gol iniziale e al guizzo che costringe Pau Cubarsí al fallo da rigore. Non doveva giocare poi gioca, trascinando in campo la sua antichità dolorante e non effimera, segna un gol e procura le condizioni per il secondo. Marca il territorio e costringe il Barcellona ad andare oltre sé stesso. Lautaro è l’ambizione del leader, la volontà del resistente che non abusa della sua condizione di leader e l’intelligenza di fare tutto il possibile fino a quando stremato, consunto, finito esce dal campo. La sua visione del gioco è da regista, i suoi gol da grande punta.
Çalhanoğlu
Poi ha segnato su rigore Hakan Çalhanoğlu: l’uomo dei lanci, il regista basso che ha capito che riducendosi sarebbe cresciuto, uno schermitore che disegna ragnatele, figlio di una crisi calcistica, se non avesse lasciato il Milan – dove era stato considerato un talento che non era diventato campione, mancando di continuità –, se Christian Eriksen e Marcelo Brozović non avessero lasciato l’Inter e se Simone Inzaghi non avesse dovuto adattarlo trasformandolo da mezzala in regista, oggi l’Inter non avrebbe l’uomo delle soluzioni facili nei momenti difficili.
Tempo e fallimenti. Uno arrivato tardi alle prime pagine. Çalha disegna archi sulle teste degli avversari, Çalha alza il pallone come si faceva prima, con una precisione da GPS scova i compagni, inventa traiettorie e corridoi, facendo a meno della triangolazione, ecco un altro pedatore dell’Arca perduta del calcio e del Barça sconfitto.
Çalha è un assolo di realismo che tiene insieme l’estetica del gesto e la visione di gioco: anticipo, decisionismo e ispirazione senza moine. Anche se col Barcellona ha dovuto marcare più che lanciare, schermare più che immaginare, ma quando c’è stato da andare a calciare il rigore contro Wojciech Szczęsny è andato ed ha segnato.
Acerbi
Come ha segnato oltre il tempo perduto e la partita ormai sfilata via come la finale: Francesco Acerbi, il più antico tra i calciatori antichi, perché l’ultimo dei marcatori veri, quello che chiude la fila di una tradizione italiana di difensori che non sfigurerebbe con il gilè marron sul petto nudo de I guerrieri della notte di Walter Hill. Uno che ha delle ombre e tanta luce, e che come tutti i grandi peccatori sa quando e in che modo farsi perdonare: andando in area di rigore alla disperata come si fa dall’ultima categoria alla Premier League quando tutto è perduto e bisogna tentare in ogni modo di recuperare e segnare. Uno che di solito leva il pallone dalla porta non lo mette in porta, ma che se costretto sa come mettercelo per tutte le volte che l’ha tolto, citofonare Erling Haaland. Uno che ha la faccia da western di Sergio Leone e che segna un gol alla Luis Suárez, pistolero per una sera.
Per andare oltre sé stessi bisogna essere molteplici, e Acerbi ha dimostrato di essere una forza del passato, uno che dalla retroguardia ha imparato ad avanzare col piglio, i gesti e il tempo giusti. A forza di togliere il tempo agli attaccanti ha incamerato il loro tempo e si è giocato tutto il bonus di una vita in marcatura, segnando il gol più importante della sua vita.
Frattesi
Ultimo viene Davide Frattesi, il calciatore di sussistenza con la benedizione della provvidenza, capace di fintare come Gianni Rivera in un altro quattro a tre, e di mettere a sedere una difesa intera, trovando l’angolo giusto, e facendosi salire la pressione a mille. Frattesi ha la faccia da statua romana, unisce la furbizia del senato con il naso dei greci, e sa muoversi come un Ovidio del pallone, ogni movimento è verso. Viene centellinato da Simone Inzaghi che sembra avere il blink delle sue entrare, lo mette e quello gli risolve le partite e la vita. Poi torna in panchina, pronto per il prossimo miracolo. Un calciatore cosciente del proprio ruolo, che sa stare al suo posto, quello della straordinarietà. Un altro modo antico di rapportarsi al calcio.
Frattesi sta nella disciplina antica del calcio e della terra. Uno col senso del limite, ma che quando gioca va oltre ogni aspettativa. Un bandito del tempo. Che rapina palloni e li mette in porta ogni volta che serve. Frattesi fa un uso antico del suo corpo – piccolo per i numeri di questo calcio, come piccolo è Lautaro, piccolo è Çalha, solo Acerbi è grosso con il suo metro e novantadue, tutti qui altri stanno sotto il metro e ottanta – sfruttando l’elasticità e la corsa al limite nel poco tempo che gli viene concesso, con una freddezza che non contempla l’emotività, che lascia al dopo gol.
Come eternauti
Questi quattro pedatori sembrano l’ultima espressione di un tempo che volge al termine e intorno hanno altri pedatori che pure sembrano antichi per come agiscono, per il loro fisico, per come sopportano certi compiti: da Yann Sommer, un portiere piccolino se pensiamo ai Donnarumma e agli Szczęsny, che fa parate da Yashin; o a un calciatore decisivo come Mehdi Taremi per come ha difeso e provato a strappare durante i supplementari: dalla Persia con furore, il calciatore che non ti aspetti e che porta l’antichità del sacrificio disegnata in faccia.
Chi ha già visto L'Eternauta – la serie tv tratta dal fumetto di fantascienza scritto da Héctor Oesterheld e disegnato da Francisco Solano López – non potrà che pensare a questi calciatori antichi quando vedrà che sotto l’atto dell’invasione aliena a Baires funzionano solo le macchine vecchie, quelle senza elettronica, ecco, anche in Champions l’impressione è che siano i fuoristrada come Acerbi, le Mehari come Frattesi e le Ford come Lautaro e Çalha a salvare le stagioni.
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