Ho una voglia pazzesca» disse Bix, in piedi accanto al letto, stiracchiando le spalle e la spina dorsale come faceva ogni sera prima di coricarsi. «Di parlare, intendo».

Lizzie incontrò il suo sguardo al di sopra dei riccioli scuri di Gregory, il loro ultimogenito, che stava poppando al seno. «Ti ascolto» disse sottovoce.

«È...». Fece un lungo respiro. «Non so. È difficile».

Lizzie si rialzò a sedere, e Bix si rese conto di averla messa in allarme. Gregory, sloggiato, attaccò a strillare: «Mamma! Non ci arrivo». Aveva appena compiuto tre anni.

«Questo bambino va svezzato» borbottò Bix.

«No» ribattè Gregory, risoluto, rivolgendo a Bix un’occhiata di riprovazione. «Non voglio».

Lizzie cedette agli strattoni di Gregory e tornò a stendersi.

Bix si domandò se l’ultimo dei loro quattro figli non avesse intenzione, con la complicità della madre, di prolungare l’infanzia fino all’età adulta. Si distese accanto a loro e guardò la moglie negli occhi con un’espressione ansiosa.

«Cosa c’è che non va?» bisbigliò Lizzie.

«Niente» disse lui, mentendo, perché il problema era troppo pervasivo e amorfo per poterlo spiegare. Scacciò la bugia con una verità: «Continuo a pensare alla East Seventh Street. A quelle conversazioni».

«Di nuovo» disse lei, teneramente.

«Sì».

«Ma perché?».

Bix non lo sapeva, tanto più che, ai tempi della East Seventh Street, le ascoltava solo distrattamente, Lizzie e le sue amiche, che si chiamavano a vicenda tra nubi delle canne come escursioniste disorientate in una valle nebbiosa: «Che differenza c’è tra l’amore e la libidine? Esiste il male?».

Bix era a metà del dottorato, quando Lizzie si era trasferita da lui, e quelle conversazioni le aveva già fatte, al liceo e anche alla Penn State University. La sua nostalgia, a tanti anni di distanza, riguardava quello che lui – captando vagamente Lizzie e le sue amiche, seduto alla sua postazione, davanti al suo desktop SPARC collegato via modem al Viola World Wide Web – aveva provato: la segreta ed estatica certezza che il mondo su cui quelle laureande, nel 1992, si interrogavano con tanto impegno sarebbe diventato ben presto obsoleto.

Gregory poppava. Lizzie si stava appisolando. «Ti va?» la incalzò Bix. «Di fare una conversazione come quelle, dico».

«Adesso?» Sembrava prosciugata: si stava prosciugando sotto i suoi occhi! Bix sapeva che lei si svegliava alle sei per occuparsi dei bambini, facendo allo stesso tempo meditazione, e che poi stava tutto il giorno al telefono con l’Asia.

Si sentì sommergere da un’ondata di sconforto. Con chi poteva parlare in quella maniera casuale e aperta, da studenti universitari? Quelli che lavoravano da Mandala avrebbero provato, in qualche modo, a compiacerlo. Chi non ci lavorava, invece, avrebbe pensato che doveva esserci sotto qualcosa, forse un test: un test che aveva come posta in palio l’assunzione da Mandala! Poteva parlare con i suoi genitori?

Con le sue sorelle? A loro voleva bene, ma nella sua famiglia non si era mai comunicato a quel livello. Quando il sonno di Lizzie e Gregory gli parve abbastanza profondo, Bix portò il figlio nel suo lettino, nella stanza in fondo al corridoio, e poi decise di rivestirsi e di uscire.

Erano le undici passate. Uscire a piedi per le vie di New York, da solo, a qualsiasi ora, ma soprattutto di sera, era una violazione delle misure di sicurezza stabilite dal suo consiglio d’amministrazione, perciò rinunciò al caratteristico zoot suit decostruito che si era appena tolto (ispirato ai gruppi ska di cui era un fan ai tempi del liceo) e al piccolo fedora di pelle che aveva adottato quindici anni prima (quando era uscito dalla New York University) per alleviare lo strano senso di nudità causato dal taglio dei lunghi dreadlock.

Riesumò dall’armadio un giubbotto mimetico dell’esercito e un paio di anfibi malconci e si tuffò nella notte di Chelsea a testa scoperta, infastidito dall’aria fredda perché, sì, aveva un inizio di chierica. Era sul punto di gesticolare verso la telecamera per farsi riaprire dai custodi e tornare a prendere il cappello, quando vide un venditore ambulante all’angolo della Seventh Avenue. Percorse la Twenty-first Street fino alla bancarella e si provò un berretto di lana nero, per poi controllare come stava in un piccolo specchio rotondo appeso là accanto.

Aveva, ai suoi stessi occhi, un’aria perfettamente ordinaria con quel berretto in testa. Il venditore accettò la banconota da cinque dollari come avrebbe fatto con qualunque cliente, e la transazione inondò il cuore di Bix di un piacere malandrino: era abituato a essere riconosciuto dovunque andasse. Quella dell’anonimato era una sensazione nuova.

Era l’inizio di ottobre, e il vento sembrava una rasoiata fredda. Bix proseguì lungo la Seventh Avenue in direzione uptown, intenzionato a tornare indietro dopo pochi isolati. Camminare di notte, però, gli piaceva. Gli faceva venire in mente gli anni della East Seventh Street: gli inizi, quando i genitori di Lizzie, ogni tanto, arrivavano in visita da San Antonio, Texas. Credevano che la figlia condividesse l’appartamento con Sasha – anche lei, come Lizzie, al secondo anno della NYU – che si prestava alla messinscena, mettendosi a fare il bucato in bagno proprio quando i genitori dell’amica arrivavano a trovarla, all’inizio del semestre autunnale.

Lizzie era cresciuta in un mondo che ignorava l’esistenza dei neri, fatta eccezione per i camerieri e i caddy del country club frequentato dai suoi genitori. Era a tal punto angosciata dal presunto orrore che avrebbero provato scoprendo che la figlia conviveva con un fidanzato nero che, in occasione delle loro prime visite, Lizzie aveva bandito Bix dal loro letto, anche se mamma e papà prenotavano sempre una stanza in un hotel midtown! Fa niente: l’avrebbero capito. Bix, in quei casi, se ne andava in giro a piedi e, ogni tanto, finiva ad abbioccarsi nel suo laboratorio, facendo finta di lavorare tutta la notte.

Quelle camminate avevano lasciato una traccia nella memoria muscolare: un ostinato imperativo a proseguire, malgrado il risentimento e la stanchezza. Stava male al pensiero di aver accettato quella situazione, anche se il sacrificio gli pareva ampiamente compensato, a livello di equilibrio cosmico, dal fatto che Lizzie ormai si occupava di ogni aspetto della loro vita domestica permettendo a lui di lavorare e viaggiare quanto voleva.

La miriade di belle cose che da quei tempi gli erano capitate potevano essere viste come una ricompensa per quelle camminate. Resta però una questione: perché? Il sesso che facevano era davvero così strepitoso? (Be’, sì.) La sua autostima era così scarsa da spingerlo ad assecondare senza proteste il pensiero magico della sua fidanzata bianca? Gli piaceva essere l’illecito segreto di Lizzie?

Nulla di tutto questo. Bix si era mostrato indulgente, era riuscito a resistere, solo perché ai tempi era folgorato dalla sua Visione, che ardeva con ipnotica chiarezza in quelle notti di sgambettante esilio. Lizzie e le sue amiche, nel 1992, non avevano praticamente idea di cosa fosse Internet, ma Bix sentiva le vibrazioni dell’invisibile ragnatela di connessioni che si ramificavano nel mondo come incrinature su un parabrezza.

La vita vissuta fino a quel momento sarebbe finita in frantumi, spazzata via, e a quel punto tutti si sarebbero elevati, insieme, verso una nuova dimensione metafisica. Quel momento Bix se lo figurava come certi dipinti del Giudizio universale di cui collezionava riproduzioni, ma senza l’inferno. Anzi – così credeva lui – i neri, finalmente disincarnati, si sarebbero emancipati dall’odio che li imprigionava e li intralciava nel mondo fisico.

Si sarebbero potuti finalmente muovere e radunare a piacimento, senza la pressione di persone come i genitori di Lizzie: quei texani senza volto che si opponevano a Bix pur non sapendo neanche della sua esistenza. Solo un decennio dopo, l’espressione “social media” sarebbe entrata nell’uso per descrivere il business di Mandala, ma Bix l’aveva concepito molto tempo prima.

da La casa di marzapane Mondadori, 2022 Copyright © 2022 by Jennifer Egan © 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

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