Mi sono rimesso in viaggio. Sto ritornando nella città dei vivi dopo avere intervistato Maradona per conto del quotidiano Domani. Mi allontano sempre più dalla sua baracca, cammino su questa sterpaglia secca che scricchiola sotto le mie scarpe. «Per oggi basta!» rimugino dentro di me «Ho già dato. Speriamo che quelli del giornale mi mandino qui il meno possibile, perché è terribilmente difficile arrivarci. Non so neanch’io come ho fatto. Ed è anche terribilmente difficile rintracciare le persone in questa città sconfinata. E adesso, come se non bastasse, devo compiere lo stesso viaggio all’incontrario…».

Però, mentre passo vicino al palazzo mitteleuropeo attraversato e sfondato da un grattacielo che mi era stato indicato da Maradona, mi viene da rallentare un po’, perché mi continua a frullare nel cervello la storia di Freud e della pulsione di morte.

Rallento sempre di più.

Mi fermo di fronte al portone.

Metto il naso dentro.

Mi dico: «Visto che sono qui, perché non fare due chiacchiere anche con Freud?»

C’è un profondo silenzio, non vengono voci dall’interno del palazzo, neanche dal grattacielo che lo attraversa ed erompe dal suo tetto. Non vengono quei soliti rumori di voci, di risate, di grida, di posate, di piatti… che vengono spesso dalle sovraffollate abitazioni e dai grattacieli della città dei morti. Neanche quelle musichette e quei versi che escono dai loro televisori e dai loro strumenti elettronici morti.

Faccio qualche passo all’interno.

«C’è nessuno in casa?» provo a dire, come uno scemo.

Silenzio.

Avanzo ancora un po’, lungo un corridoio, e poi attraverso una prima stanza, e poi una sala attraversata dallo spigolo di metallo e di vetro del grattacielo.

C’è un grande silenzio. Però, in questo profondo e quasi sovrumano silenzio, comincio a sentire un leggero rumore di passi, che si avvicina sempre di più.

Alzo gli occhi.

Il dottor Freud mi sta venendo incontro, vestito con gli abiti del suo tempo, il sigaro in bocca.

Sembra agitato.

«Quel ciccione mi ha sfondato il lettino!» mi dice senza preamboli, indicandomi una specie di divano orientale franato, con sopra una coperta colorata.

Non so cosa rispondere, sono sbalordito.

«E adesso come faccio ad analizzare i morti?» riprende a dire, angosciato.

«Perché, continua il suo lavoro anche qui?» riesco a domandare.

«Altroché! C’è la fila! Non ho mai avuto tanti pazienti come qui nella città dei morti. Sapesse quanti traumi! Quelli che hanno subito là più quelli che hanno subito qui… E poi in questa città ci sono gli umani di tutti i tempi, per cui vengono da me anche donne e uomini del passato».

«Ah, sì? Chi, per esempio?»

«Oh… ho in analisi Manzoni, Dostoevskij, Lucrezia Borgia, Ezzelino da Romano, Elvis Presley, Fausto Coppi, Dante…»

Non credo alle mie orecchie.

«Anche Fausto Coppi, anche Dante?»

«Quello è messo male. Un nevrotico grave… Non so neanch’io se andare avanti con l’analisi, se gli faccio del bene o gli faccio del male a scoperchiare certi suoi ripostigli segreti, a rivelargli i contenuti terribili del suo inconscio…»

Lo guardo, senza riuscire a parlare.

«Anche il conte Dracula…» si ricorda di aggiungere Freud, all’improvviso.

«Accidenti! Con quello sarà dura!»

«Ma no, è un caso facile, in fondo è un bravo ragazzo…»

Non riesco a rispondere.

C’è un nuovo, lungo silenzio.

Il dottor Freud continua a guardare con angoscia il lettino.

«Ma non ci sono i falegnami nella città dei morti?» provo a dire, per cercare di consolarlo.

«Sì, ne ho trovato uno, ma lo continuo a chiamare e non viene! Dice sempre di sì e poi non arriva. Questa città è immensa. Quelli fanno i giri che fanno comodo a loro, accorpano i lavori, per guadagnare di più. Non se ne parla di farti fare una ricevuta…»

Un altro silenzio.

Cerco di interromperlo con la prima cosa stupida che mi viene in mente: «Come fa a procurarsi i sigari anche qui?»

«Ho trovato un negozietto, qui vicino. Tiene i miei preferiti: cubani».

Lo guardo.

Adesso si è disteso un po’, sta tirando una lunga boccata dal sigaro.

Si accalora improvvisamente: «Ma lo sa che le sigaraie afrocubane se li arrotolano all’interno della cosce, così il loro afrore passa anche nella foglia del tabacco?»

«Ah… però!»

Adesso è tutto eccitato, tira grandi boccate, socchiude gli occhi.

Mi viene da domandargli: «Come mai è finito qui, a Buenos Aires?»

«Io me ne stavo nella parte viennese della città dei morti, poi non lo so che cos’è successo, perché questa città si espande continuamente, palpita, si amalgama in modi sempre diversi… La mia casa di Vienna è stata infilzata di colpo da questo grattacielo, non so se mi spiego…»

«Si spiega sì!»

«Mi creda, non è una cosa da poco vedere la propria casa sodomizzata da un grattacielo… E così sono finito qui, vicino alla baracca di quel ciccione sfondalettini!»

«Forse» mi azzardo a dire «è finito qui perché in Argentina la psicanalisi va ancora forte. Quando ero venuto qui, nel passato, mi ricordo che lungo una grande strada interminabile e diritta che mi pare si chiamasse Corrientes c’erano delle librerie con metà degli scaffali occupati da libri di psicanalisi. Chissà che ferite, che traumi, dopo la dittatura! Vedi le persone mangiare in silenzio il loro bife e chissà cosa nascondono dentro…»

«C’è gente che è stata torturata e che ha torturato, e magari si incontrano per strada… gente che ha fatto sparire bambini, che ha buttato persone vive dagli aerei, dagli elicotteri, nel Mar de la Plata, che ha tradito gli amici per paura, per fare carriera, gente che passava la notte con il cuore in gola, in attesa di sentire gli scarponi dei soldati che salivano le scale e andavano a prenderli, mentre il vicino delatore spiava al buio attraverso i listelli delle ante…»

Si interrompe. Mi guarda.

«Lei da dove viene?» mi chiede all’improvviso.

«Dalla città dei vivi»

«Che cosa vuole da me?»

«Sono stato poco fa da Maradona, che mi ha parlato della propria pulsione di morte…»

«Quel ciccione che mi ha sfondato il lettino!» ripete, segno che quella cosa non gli è proprio andata giù.

«… così mi è venuto il desiderio di parlare con lei di questo, perché il nostro mondo mi sembra in preda a una pulsione di morte epocale»

«Io seguo anche dalla città dei morti quello che sta succedendo nella città dei vivi, attraverso i vostri giornali in rete cui ci si può abbonare anche da qui, e vedo che da voi stanno emergendo figure che lavorano proprio sulla pulsione di morte… Sa, io ho assistito all’ascesa di Hitler, lo so come funzionano queste cose, l’ho anche scritto nella Psicologia delle masse… Tanti nuovi piccoli demoni, persone senza scrupoli e senza visione, che sanno solo tirare fuori il male dagli uomini pur di arrivare al potere, costi quel che costi. Stanno schiumando dal fondo della mia Europa, degli Stati Uniti… Prenda, ad esempio, quel Trump, che è stato fino a ieri presidente di uno dei paesi più importanti e forti del mondo. E che ci è arrivato per via elettorale! Come è potuto succedere che un personaggio simile venisse eletto presidente degli Stati Uniti? Sarebbe bastato guardarlo… D’altronde anche Hitler è salito al potere per via elettorale, a furor di popolo. Perché non è vero che il popolo ha sempre ragione, che l’elettore ha sempre ragione. E tutti là a cercare delle ragioni di una vergogna simile, elencando cose che saranno anche vere, però sono secondarie. Non fanno che fustigarsi, invece che guardare in faccia la Medusa. Nessuno che abbia il coraggio di dire che le masse, come i singoli, subiscono anche la fascinazione del male perché il male ce l’hanno dentro, perciò lo riconoscono subito fuori di sé e, quando questo succede, se ne sentono liberate, perché il demonio ce l’hanno dentro e quando trovano uno che dice al loro demonio: “Vieni fuori, esci finalmente dalla gabbia dove ti hanno imprigionato! Io spezzerò le te catene, ti libererò!” allora gli sono riconoscenti, lo votano, lo adorano. Perché c’è dentro di noi una pulsione di morte che certe volte cresce a tal punto da prendersi tutto».

«In questi anni, nella città dei vivi, stanno succedendo molte cose che non mi saprei spiegare se non con la pulsione di morte: l’economia eretta a unica dimensione della vita e del mondo, l’indifferenza di fronte alla catastrofe ambientale e di specie che ci sovrasta, i fantasmi e i demoni del recente passato che stanno riapparendo come se niente fosse successo… Nel Disagio della civiltà lei si domanda fino a che punto gli uomini riusciranno a dominare i turbamenti provocati dalla loro pulsione aggressiva e distruttrice…»

«E poi in quel libro dico che la pulsione distruttiva è all’opera dentro ogni essere vivente  e la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato di materia inanimata. Le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche rappresentano gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva quando si rivolge all’esterno. L’essere vivente protegge la propria vita distruggendone una estranea. Il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione del mondo esterno scarica l’essere vivente e non può che avere un aspetto benefico. Questo serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quel che lo sia la resistenza con cui noi li contrastiamo…»

Rimaniamo di nuovo in silenzio.

Il dottor Freud continua a fumare il suo sigaro.

All’improvviso mi viene in mente di chiedergli: «Non so se lei segue quello che sta succedendo nel piccolo p’aese della città dei vivi da cui provengo: l’Italia…?»

Si porta le mani alle tempie.

«Pulsione di morte all’ennesima potenza. Non sapete più come fare per farvi del male».

«Sì, lo so, il mio è un paese fratricida, un paese perennemente incompiuto. Noi abbiamo il nostro paese sempre sulle spalle...»

«Corruzione, infantilismo, narcisismo, cinismo, furbizia, nessuna cura per il bene comune, un personale politico privo di visione e di scrupoli, capace solo di piccoli giochi per la propria presunta sopravvivenza, come cani feroci che si azzannano sull’orlo del precipizio...»

Adesso sono io a prendermi la testa tra le mani.

«Vorrei farle una domanda scema» gli dico all’improvviso, per parlare di cose più terra-terra, per allentare un po’ tensione.

«Non ci sono domande sceme».

«È solo una piccola curiosità, una sciocchezza… Ma a chi posso chiedere una cosa simile, se non a lei?»

«La faccia corta».

«Ecco, noi in Italia, tra i vari politici, ne abbiamo due che stanno all’opposizione e di cui i media si occupano molto. Si chiamano Salvini e Meloni…»

«Sì, lo so, li conosco, li ho visti e ho osservato a lungo le loro fisionomie, nei giornali in rete della città dei morti».  

«Bene, il primo era lì lì per farcela a prendersi tutta la torta ma poi ha sbarellato per una bella botta di pulsione di morte, la seconda sembra più istintiva ma è meno infantile e più accorta. Ecco, però adesso non intendo parlare delle loro posizioni politiche ma di una cosa piccola piccola che però mi colpisce molto, e cioè del loro modo di… comunicare, come si dice adesso, anche se sarebbe meglio dire ipnotizzare, abbindolare. Cosa molto importante perché tutti e due hanno costruito le loro fortune elettorali soprattutto su questo, devono aver letto e imparato a menadito il capitolo del Mein Kampf dove si parla dell’agitazione e della propaganda, di cui Hitler era un genio. Insomma, mi colpisce il fatto che, pur operando tutti e due nella stessa area politica, i loro modi di comunicare sono opposti: il primo è freddo, se ne sta lì con la bocca schifata, la faccia imbambolata e strafottente, non risponde alle domande ecc, ma ci tiene ad apparire freddo; la seconda invece è una furia, un momento prima è tranquilla e un momento dopo – quando è inquadrata e sa di essere vista da una moltitudine di persone – comincia a urlare e a inveire, sembra un robot…»

«La risposta è semplice. Il primo, come maschio, apparirebbe debole se perdesse le staffe e si mettesse a gridare istericamente; la seconda è femmina e lo scatenamento femminile rimanda ad archetipi preesistenti che lavorano dentro di noi e vengono subito riconosciuti, che ci intimoriscono ma ci soggiogano: l’isteria, la madre folle, la furia, le erinni… Credo che il suo modello sia Evita Peron, solo che Evita non lasciava trasparire la rabbia, non se ne faceva travolgere, era sì appassionata, militante, però anche elegante, altera… Per cui: maschera facciale immobile, brutalità e freddezza da parte del maschio, gesticolamenti e grida da quella della femmina...»

Il dottor Freud si interrompe. Fa qualche passo di lato, per andare a buttare il sigaro in un portacenere.

«Adesso deve scusarmi» mi dice «ma devo ricevere un paziente un po’ particolare».

Si guarda attorno.

«E non so dove farlo distendere!» si dispera.

«Chi è?» mi azzardo a chiedere.

«Pinocchio».

«Pinocchio? Non ci posso credere! Anche Pinocchio è qui?»

«Ah, quello è un caso unico! Non so da che parte prenderlo!»

Mi allunga la mano, per farmi capire che l’incontro è finito.

Ci salutiamo.

Giro su me stesso. Mi incammino verso l’uscita.

Nello stesso istante il mio cellulare si mette improvvisamente a suonare, perché si vede che i cellulari dei vivi prendono anche nella città dei morti.

Me lo accosto all’orecchio.

È il capocultura.

«Sei ancora lì?» mi dice con impazienza «Cosa aspetti a tornare nella città dei vivi?»

«Tanto che c’ero, ho pensato di intervistare anche Freud, che abita vicino alla baracca di Maradona».

Sembra su di giri.

«Devi tornare subito nella città dei vivi!» mi dice.

«Cos’è successo?»

«Mi ha telefonato una persona, ha detto che vuole incontrarti, che c’è in ballo una cosa grossa!»

«Di cosa si tratta?»

«Ha avuto una soffiata!»

«Su che cosa?»

«Non ha voluto dirlo a me, vuole dirlo solo a te!»

«Chi è questa persona? Come si chiama?»

«Professor Occultis».

«Cornelius Occultis? Ma è l’amico del Grande Bleck!»

«C’è qualcosa di grosso in ballo e il nostro giornale vorrebbe arrivarci prima degli altri!», continua a dire la voce del capocultura, come se non mi avesse sentito.

«Era un fumetto che leggevo da bambino e poi da ragazzo e di cui andavo pazzo, salgariano… usciva anche in piccole strisce…», continuo a dire con entusiasmo, come se anch’io non lo avessi sentito «una volta da bambino l’ho persino rubato dal giornalaio, perché non mi avevano dato il soldino per comperarlo…»

«Sì, sì, d’accordo, ho capito» taglia corto il capocultura «però adesso devi darti una mossa, devi tornare a fare il nostro inviato nella città dei vivi!»

«Va bene, allora arrivo. Però non so di preciso quanto ci si mette a passare dalla città dei morti a quella dei vivi. Non è una cosa da poco…»

«Prima arrivi e meglio è! Così bruciamo la concorrenza!»

E allora mi do una mossa.

Mi allontano dal palazzo mitteleuropeo con il grattacielo incastrato dentro, mi metto a camminare attraverso la sterpaglia, arrivo fino a una piccola strada dall’asfalto divelto su cui si sposta una vecchia macchina scassata e dai vetri rotti, e poi fino a una strada più grande da dove si vede dell’acqua nera e marcia. E poi incontro una prima piazza attraversata da passanti morti, e poi… e poi…  

Guardate un po’ cosa sto facendo per voi! Sto mettendo insieme la città dei vivi e quella dei morti, la storia dei vivi e quella dei morti, l’attualità dei vivi e quella dei morti. Sto vedendo i fatti non da una parte sola ma da una parte e dall’altra. Mi sa che ne vedrete delle belle! Il gioco si fa più grande, il giornalismo si allarga.

© Riproduzione riservata