Nel maggio 2009 viene selezionato come astronauta dell’Agenzia spaziale europea e da allora ha iniziato la formazione per la propria missione in orbita intorno alla Terra. Il suo nome è nell’olimpo degli astronauti italiani, tra i più famosi della sua generazione. Luca Parmitano ha trascorso 366 giorni non cumulativi nello spazio, ad oggi il tempo più lungo di qualsiasi altro astronauta dell’Agenzia spaziale europea.

Quando è rientrato il 6 febbraio 2020 sulla Terra, dalla sua seconda missione sulla Stazione spaziale internazionale con la navetta russa Soyuz Ms-13 – partita nel giorno del cinquantesimo anniversario del primo uomo sulla luna – si è ritrovato a vivere il normale periodo di riabilitazione a cui sono sottoposti gli astronauti di ritorno da una missione, mentre iniziava nel mondo il lockdown per arginare l’epidemia da Covid-19. È passato più di un anno dal suo ritorno.

La figura dell’astronauta è quella del supereroe, dell’esploratore che almeno una volta quasi tutti da bambini abbiamo scelto come modello. Da adulti invece lo pensiamo come una persona normale che fa un lavoro straordinario, qual è il segreto di questa professione per rimanere con i piedi ben piantati sulla terra pur vagando nello spazio?

Il primo passo è sicuramente quello di non avere ambizioni o pretese superomistiche! Quello che facciamo è, al momento, fuori dal comune e presenta una certa straordinarietà: ma questo non rende gli astronauti persone diverse dalle altre. L’eccezionalità del nostro lavoro è condivisa con le migliaia di operatori, ingegneri, istruttori, controllori di volo, e decine di altre categorie, che ci permettono di partire in sicurezza, arrivare in orbita, lavorare dentro e fuori una Stazione spaziale e poi rientrare sulla Terra.

Non c’è un punto chiaro e netto che definisca il confine tra la Terra e lo spazio per lei dove finisce uno e inizia l’altro?

Io stesso non amo le definizioni, per cui è una domanda che non mi sono mai posto. Come pilota, ho notato che esiste un continuum nelle operazioni di volo, da quello atmosferico a quello spaziale: alcune macchine sono più adatte a un tipo di volo rispetto ad altre. Gli ambienti in cui operiamo possono richiedere equipaggiamenti speciali che permettono di sopravvivere alle condizioni estreme. Ma lascio ad altri il dibattito sulla dialettica.

Lei ha contribuito due volte a missioni di lunga durata sulla Stazione spaziale internazionale e ha accumulato un anno intero di esperienza a bordo. Sogna un’esplorazione che vada al di là dell’orbita bassa terrestre?

Non ho bisogno di sognarla: sta già avvenendo, da molti anni e con il contributo attivo, e fattivo, dei paesi europei. Quella robotica è pur sempre esplorazione, e abbiamo imparato di più sul nostro satellite, e su Marte, negli ultimi 60 anni di quanto potessimo immaginare nel precedente mezzo millennio, da quando il telescopio ci ha virtualmente avvicinato al cosmo. Inoltre insieme ai colleghi dell’Esa partecipo alla progettazione del prossimo habitat cislunare Gateway, e spero un giorno di poter contribuire anche alla fase di sperimentazione.

È complesso portare nell’orbita marziana o addirittura sulla superficie marziana, un essere umano. Nonostante l’ambizione sia viva, richiederà tempi lunghi.

Non bisogna sottovalutare l’aspetto ingegneristico, perché le soluzioni ai problemi, anche fisiologici, dell’esplorazione interplanetaria verranno risolti grazie all’innovazione tecnologica. Mi riferisco all’aspetto propulsivo delle astronavi che ci porteranno su Marte, ai sistemi di controllo dell’ambiente e supporto alla vita, e alla necessità di sistemi generali autoriparanti.

La United States space force è una delle forze armate degli Stati Uniti d’America, responsabile di tutte le operazioni spaziali e nel cyberspazio, dei sistemi di lancio e dei suoi satelliti. È l’unica forza armata statunitense che può gestire l’astronautica militare. Il ruolo strategico dello spazio negli ultimi anni è cambiato?

Si è consolidata la consapevolezza di quanto l’ambiente spaziale sia uno degli scacchieri strategici del futuro. Gli Stati Uniti hanno il vantaggio di un sistema militare integrato, l’Unione europea deve ancora lavorare molto su questo aspetto. Ma sarà necessario arrivare a un alto grado di integrazione, perché non abbiamo scelta, se vogliamo restare competitivi. Spesso gli ambienti militari sono precursori di quelli civili, perché sono in grado di reagire rapidamente: ci offrono così uno spaccato, in miniatura, di quello che potrà essere il futuro.

La Stazione spaziale internazionale è un grande laboratorio di ricerca, anche da un punto di vista biologico. Qual è il contributo che ha fornito la ricerca spaziale rispetto l’attuale pandemia?

La pandemia è un caso di emergenza internazionale, che ha costretto le autorità scientifiche, a livello mondiale, ad attivarsi per affrontare una specifica situazione. La stazione spaziale non è stata disegnata con questo tipo di risorse: gli esperimenti devono essere disegnati con ampio anticipo, per poter rispondere ai requisiti di sicurezza ed eseguibilità in un ambiente di microgravità. Un importante contributo è quello di aiutare nell’evoluzione della coscienza sociale: gli astronauti si isolano in quarantena prima di partire, e si sottopongono a rigorose procedure profilattiche, incluso il vaccino annuale antinfluenzale, per assicurare la protezione dei colleghi a bordo della Stazione o appena rientrati. L’idea di limitare volontariamente la propria libertà per la sicurezza di chi ha un sistema immunitario degradato, e di vaccinarsi anche se si fa parte di una categoria non particolarmente a rischio, può essere d’ispirazione a chi oggi ha ancora dubbi sulla validità delle misure di isolamento e sulla necessità di vaccinarsi appena possibile.

Nelle sue passeggiate spaziali è sempre stato un acrobata tra le stelle, anche quando nel 2013 rischiò quasi la vita annegato in orbita per un difetto della tuta. Oggi operare al di fuori della Stazione è diventata sempre più la regola.

Pensare che le attività extraveicolari siano la norma, significa ignorare le migliaia di ore di preparazione necessarie all’esecuzione delle sei ore visibili al pubblico. Per quanto mi riguarda, lo ritengo un privilegio e un incredibile risultato professionale. Non stiamo colonizzando lo spazio, siamo ancora in una fase di esplorazione basica, che dovrà necessariamente continuare a lungo. Al momento la nostra esperienza umana è limitata a 20 anni in orbita bassa terrestre, e una manciata di giorni sulla superficie lunare. I nostri sistemi sono ancora a uno stadio di sviluppo iniziale, sono goffi e grossolani: serve un salto di immaginazione, tecnologia e industria. L’ambiente spaziale è ancora estremamente ostile, abbiamo ancora molta strada da fare… e lo spazio è infinitamente grande».

 

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