In questi giorni è a Trieste per raccontare Svevo a teatro. Una produzione dello Stabile dove Mauro Covacich tiene una lezione sull’autore di Zeno in una scenografia quasi scolastica, nel senso letterale di quelle aule dove alla letteratura e a uno dei miti della città in tanti ci siamo avvicinati.

A Trieste, come altrove, si è appena votato e la destra ha rivinto. Negli stessi giorni a Trieste sono arrivate troupe e giornalisti, ma non per il voto, si sono precipitati all’ingresso del porto per capire cosa stesse succedendo su quel confine di solito discreto nel far parlare di sé. Allora la curiosità di sentire come la pensa una figura che su quella striscia tra mare e Carso è nata e la conosce “da dentro”, ha portato a qualche domanda. Bon, è tutto.

Giorni fa hai commentato i fatti del porto spiegando che al fondo quella anomalia arriva da lontano, sarebbe retaggio imperiale, attenzione verso il benessere del corpo. E al fondo una italianità mai davvero risolta. Trieste, potremmo aggiungere, come un “luogo fuori luogo”. Saba lo aveva scritto a modo suo, «Circola in ogni cosa / un’aria strana, un’aria tormentosa». Partiamo da qui: siamo proprio destinati a non trovare una via di uscita da quella che hai battezzato la “città interiore”?

Ma no, Trieste sta trovando con coerenza una sua strada: la follia! L’unicità di Trieste è il risultato della fusione di due interi universi culturali, quello slavo-continentale che viene da nordest insieme alla bora, ed è il lato algido, prettamente mitteleuropeo della città, che si fonde con l’universo latino-mediterraneo, il quale invece sale da sudovest e porta il caldo, ed è il lato marino, levantino della città (che tanta parte ha nel temperamento dei triestini). I triestini sono il risultato di questa fusione. È gente strana, da sempre radicata in un sentimento di non appartenenza. Non appartenevano all’Austria, ma poi l’hanno rimpianta. Non appartenevano agli odiati titini, Trieste è stato l’unico caso di una resistenza antifascista senza comunisti. Non appartenevano all’Italia, per nove anni nel dopoguerra sono stati un protettorato degli alleati. L’identità del triestino è la non appartenenza. Il triestino è un bastian contrario per natura, è scettico, polemico, individualista e quindi istintivamente refrattario a qualsiasi pensiero collettivo, per non dire comunitario. Ora l’abbaglio No vax ha prestato una bandiera a questa indole, non siamo però di fronte a un popolo, ma a un aggregato di atomi solitari. Tieni presente che la poesia che citi si conclude con «la mia vita pensosa e schiva».

LaPresse

Di Piazza che brinda mentre tutta Italia vede Fabio Tuiach, l’ex pugile di Forza Nuova, inveire contro il green pass assieme ad alcune migliaia di militanti venuti da fuori. Zeno D’Agostino, il manager che ha rilanciato lo scalo facendone una realtà che guarda all’Europa e a oriente, minaccia di andarsene. La sigla che promuove la protesta finisce invischiata in una vicenda che sfugge di mano sino allo sgombero forzoso. È la sintesi dell’ultima settimana. Ora, detto che trovo quella protesta orfana di argomenti, a colpirmi è stata la reazione di un pezzo di città. Tre manifestazioni con migliaia di persone, il tutto in un luogo che vanta il primato di ricercatori e poli di eccellenza. Secondo te da dove nasce la contraddizione? Esiste una “aristocrazia” della scienza che in tanti anni non è riuscita a mettersi in relazione col sentimento profondo della città?

Non so, ho l’impressione che la scienza e l’anti-scientismo non c’entrino. Ciò che stiamo vedendo mi sembra risponda a un impulso irrazionale. A Trieste anzi le persone sono più istruite che altrove, hanno un grande senso civico e da sempre una forte coscienza critica (il bastian contrario di cui sopra). Però, tra le tante cose del patrimonio ereditario degli Asburgo, c’è anche un certo salutismo ante litteram (Sissi aveva fatto installare degli anelli tra gli stucchi del castello di Miramare per fare i suoi esercizi mattutini). Un culto del corpo – a Trieste siamo tutti sportivi –, un edonismo che non c’entra nulla con il superomismo ma che certo ha a che fare con un’idea abbastanza spartana della vita. Salubrità e amore per la natura (i bagni di mare, le passeggiate sul carso) hanno da sempre comportato una forte diffidenza verso i farmaci. Se mia madre ha mal di testa non prende l’analgesico, aspetta che passi da solo. Figurarsi poi se qualcuno le mette la pulce nell’orecchio delle big pharma… (mia madre però è un’antagonista degli antagonisti e vaccinata tre volte).

15/10/2021 Trieste, protesta dei portuali al varco 4 del porto di Trieste contro l'obbligo di Green pass per poter lavorare

Sai, quando ho visto persone arrivare da ogni dove per sostenere i portuali ho pensato che per trovare l’ingresso si erano serviti di Google Maps nel senso che pochi conoscevano la storia di quei moli e la parabola di una città che col “suo” porto ha sempre avuto un legame particolare. Ho citato D’Agostino perché davvero gli anni recenti hanno trasformato il quadro: dall’oleodotto in partenza passa oggi il 90 per cento del petrolio per Vienna e l’intera fornitura diretta in Baviera. Numeri destinati a risvegliare umori autonomisti mai sepolti e, assieme, interessi delle grandi potenze perché snodi tra i Balcani, l’Adriatico e il Nord. Per giorni tutto questo è rimasto sullo sfondo, rimosso. Come se la città non riuscisse a trasmettere di sé la natura vera. In fondo siamo la più piccola delle “capitali” e la più grande delle “province”, però poi l’anima che prevale è sempre e solo l’essere provincia. È così? E perché, qui lo chiedo allo scrittore, non sappiamo raccontarci “per bene”?

Sulla cosiddetta narrazione hai ragione da vendere. Basta vedere il successo mediatico ottenuto da questo movimento grazie all’immagine del portuale, da sempre una figura mitica a Trieste. I portuali incarnano l’idea del vecchio movimento operaio, fanno luce, sono luccicanti, anche se non votano più a sinistra da un pezzo. Questo però non importa, perché comunque sono un corpo positivo, un po’ come i pompieri. I giovani in questi giorni hanno simpatizzato per il movimento soprattutto grazie alla forza attrattiva dei portuali. Il fatto è che, a proposito di narrazione, conta il punto di vista e noi a Trieste non abbiamo mai smesso di avere il torcicollo: ancora oggi facciamo fatica a guardare a est, preferiamo essere l’ultimo baluardo dell’occidente in terra nemica (anche in un mondo da trent’anni senza più confini e meno che meno nemici). E finché hai il torcicollo non puoi pretendere la centralità che meriti.

Tanto alla città letteraria in un modo o nell’altro bisogna arrivarci e allora uno spunto possibile è la definizione di Claudio Magris: Trieste come Pietroburgo per Dostoevskij, realtà «astratta e premeditata», prosperata per impulso di un governo, ma senza uno sviluppo organico, anche per questo luogo di conflitti incomponibili. Credo che solo da noi il dopoguerra trascina polemiche che altrove appaiono reperti di un altro secolo. Resta che in quella chiave hanno trovato spazio culture contrapposte e tormenti dello spirito. Da Svevo a Weiss, a Saba e Bazlen, la città ha coltivato «grandi narratori di terremoti spirituali che si apprestavano a sconvolgere il mondo». Bene, la domanda è assai banale: ti pare possibile che una realtà di tale complessità non abbia trovato modo di competere con una proposta che fosse all’altezza, che so, del salone del Libro di Torino?

Non so se la tua è una provocazione o una distrazione: nel 2011 il sindaco Cosolini mi ha chiesto di trasformare il semplice intrattenimento di “Trieste estate” in una cosa “di cultura”. Ho lavorato sei mesi insieme ad altre due persone. C’erano i fondi, eppure, a pochi mesi dall’inizio, con venti lectures fissate con tanto di date e titoli (personalità come Antonio Damasio, Derek Walcott, Abraham Yehoshua, il premio Nobel della medicina Richard Roberts…), il sindaco per ragioni mai chiarite mi ha proposto di avviare il progetto non più con il comune bensì con il teatro Verdi (che fa lirica) e io ovviamente ho rinunciato all’incarico.

No, non volevo provocarti, ti confesso che non lo sapevo e posso solo immaginare quanto possa essere faticoso combinare in quella che rimane “provincia” spinte di singole istituzioni che a volte trascendono nella “corporazione”, resta che è stata un’occasione persa. Detto ciò letteratura e storia non riesci a separarle facilmente. Settimane fa Tomaso Montanari si è attirato critiche severe perché ha proposto di sopprimere il Giorno del Ricordo, l’11 di febbraio. La tesi è quella nota: l’uso strumentale delle Foibe e dell’esodo da parte della destra. La replica migliore credo sia nel bellissimo saggio di Raoul Pupo, Adriatico amarissimo, appena pubblicato da Laterza. La realtà è che la storia del confine orientale è una tragedia che devi conoscere per poter giudicare. Tu da triestino trapiantato altrove quella storia come pensi che dovrebbe essere raccontata a un’Italia che spesso confonde ancora “Trento e Trieste” forse perché confusa dalla toponomastica di piazze e strade sparse nella penisola?

Non ho ancora letto il nuovo libro di Pupo di cui apprezzo da sempre il rigore e lo scrupolo dello studioso autentico (intendo non estemporaneo, oggi siamo pieni di studiosi sincronizzati su centenari e altri anniversari). Io sono figlio di un’istriana che mio nonno paterno (suo suocero) ha tormentato a lungo sul perché lei e la sua famiglia fossero scappati. Dal suo punto di vista, di sloveno comunista, gli sembrava assurdo che si potesse scappare dalla Jugoslavia liberata da Tito. Però mia madre ricorda ancora lo strappo (oltre alla perdita, da contadini ricchi hanno perso tutto). Quel sentimento è raccontato benissimo da Materada di Fulvio Tomizza. Dedicargli un giorno forse è troppo solenne, però lo strappo c’è stato. Sulle foibe poi, piccole o grandi che fossero, abbiamo le testimonianze, difficile negarne l’esistenza. Anche a me le celebrazioni del Giorno del Ricordo sembrano pletoriche e piene di una retorica strumentale, ma pazienza. Quanto a Trento e Trieste, è una questione di sussidiari. Adesso poi, che col gps sul telefonino si guardano ancor meno le cartine, temo che la confusione non diminuirà.

Penso alle polemiche su alcune fiction giudicate di parte. Ora, è evidente che La porta rossa non alimenta le stesse reazioni di una sceneggiatura su Norma Cossetto, ma in generale lassù c’è una sensibilità più sviluppata, che si tratti di cinema o letteratura. Ricordo la reazione indignata della mia professoressa di ginnasio all’uscita postuma di Ernesto, il romanzo di Saba, e due anni dopo la partecipazione della città alla produzione Rai di Un anno di scuola di Stuparich con la regia di Franco Giraldi. È come se avessimo bisogno della storia, del raccontarla e trasmetterla, e nello stesso tempo temessimo le conseguenze che ci rendono in qualche modo prigionieri di quel passato. Per te chi ha avuto nel tempo la capacità migliore di raccontare la città senza rimanerne ostaggio?

Il Quarantotti Gambini de L’onda dell’incrociatore e tutta quella parte dell’opera di Magris orientata alle divagazioni saggistiche, Danubio, Microcosmi, il libro su Trieste scritto insieme ad Angelo Ara. Questi sono due scrittori che trasmettono Trieste anche senza raccontarla.

Be’, tu hai citato Ernesto di Umberto Saba, grande libro, scomodissimo, scritto per buona parte in dialetto. Fino a quando avevo vent’anni, diciamo fino alla caduta del Muro di Berlino, il triestino era la lingua franca con cui ci si capiva anche in Istria e in Dalmazia (ora croate), era un dialetto transnazionale, questo credo spieghi il suo uso trasversale. Ci sono lettere di Joyce a Svevo scritte in triestino. Detto questo, credo di più nello sforzo di Svevo con il “toscano”, ovvero quello di eleggere come propria una lingua acquisita, imparata sui libri di scuola.

Alla fine pensi anche tu come altri che l’approdo di Basaglia a Trieste non sia stato un caso e che se un “teatro” quella rivoluzione doveva avere, non poteva che essere tra i padiglioni di San Giovanni e la riviera di Barcola?

Non c’è dubbio che la stranezza di Trieste, la sua toccante assurdità, ha permesso ai malati di mente, finalmente liberati dal manicomio, di dare meno nell’occhio. La parata di Marco Cavallo, con Giuliano Scabia e compagnia bella non avrebbe avuto senso in un’altra città. Ora, con questo fenomeno di isteria collettiva, abbiamo chiuso il cerchio.

Nel 1945 Gaetano Salvemini “osò” ragionare di «italiani e slavi indissolubilmente confusi», suggerendo per la Venezia Giulia un’autonomia da entrambi i paesi vicini, e in effetti era la natura di confine tra Italia e Iugoslavia a entrare in discussione. Fa riflettere se pensiamo all’Europa di adesso dove muri e fili spinati alcuni provano a ricostruirli. Se pensi all’Ungheria o alla Polonia hai l’impressione che il Novecento sia sepolto o che stia tornando?

Il nostro secolo mi sembra un po’ più spudorato perché non ha neanche le ideologie dietro cui nascondersi. Le decisioni prese dai nuovi europei sono guidate solo da semplice egoismo, non c’è un disegno dietro. Hanno ottenuto quello che volevano dall’Unione europea e ora ragionano come a una riunione di condominio, la loro spietatezza è solo questione di particelle e millesimi, per questo fa ancora più impressione.

Vabbè, siamo in fondo e tu sei un intellettuale e uno scrittore: mi dici i tre libri che si devono leggere se vuoi capire la città di Svevo, Joyce, Di Piazza e Fabio Tuiach?

Mah, le solite certezze: La coscienza di Zeno, L’onda dell’incrociatore e Microcosmi.

Aggiungo io (fuori dal dialogo), La città interiore di Mauro Covacich.

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