Anche le partite invecchiano. Persino Italia-Germania. È successo di colpo, in diretta tv, a 90° Minuto di sabato scorso. A scuotere le anziane generazioni è stato Cesare Casadei, 22 anni, romagnolo di Cervia, centrocampista del Torino alla prima convocazione con l’Italia di Luciano Spalletti. Casadei è in collegamento dallo stadio dove il Torino ha appena battuto l’Empoli. Di lui dicono che somigli a Marco Tardelli, che tra l’altro è in studio e gli fa i complimenti per la chiamata in nazionale.

Poi Paola Ferrari, in Rai dagli anni Novanta, tira fuori una domanda sfiziosa di cultura generale. «E cosa mi sa dire dell’urlo di Tardelli?». Ah, l’università della vita. Casadei vacilla, si guarda intorno, chiede di ripetere la domanda che non ha sentito bene. Tardelli, inquadrato, sta ridendo. Ha già capito. «Ma lui non era nemmeno nei pensieri nell’82», protesta. Ferrari insiste, Casadei alla fine si arrende. «Sì, lo so chi è Tardelli. Ma di questo urlo francamente non so nulla».

Il memoriale

I migliori anni della nostra vita. Con Italia-Germania si riaccendono sempre. Non è una partita, è un memoriale. E non conta la competizione. Finale mondiale o quarti di Nations League, fa lo stesso. Vale comunque (non poco) la sfida di stasera a San Siro, e così il ritorno di domenica a Dortmund. Serve a lanciare la squadra di Spalletti verso una qualificazione più agevole al Mondiale in programma nel 2026 tra Canada, Messico e Stati Uniti.

Ma serve anche a misurare che tempo fa in casa degli azzurri e quanto è variata negli anni l’epica di questa sfida leggendaria. Com’è cambiata lei. O noi. Con Italia-Germania si va sempre a caccia di aneddoti, ognuno ha i suoi. Hanno chiesto a Rudi Voeller, 64 anni, ex bomber di professione, oggi direttore tecnico delle nazionali tedesche, perché mai quella contro gli italiani venga considerata una gara così speciale. «Perché è sempre una leggenda, con confronti drammatici».

Per i ragazzi della sua generazione cominciò nel ’70, guardando dal divano il 4-3 all’Azteca, Città del Messico. La partita del secolo, c’è anche una targa fuori dallo stadio a ricordarlo a tutti, vecchi e giovani. La vinsero i nostri. C’era la televisione in bianco e nero, era un altro mondo. Voeller aveva dieci anni, l’apoteosi di gol e colpi di scena di quella semifinale gli ha segnato l’immaginazione. Penso, ha detto, «che da quella gara sia venuta la fiamma per considerare sempre particolari gli incontri tra queste due nazionali». Il suo immaginario non è diverso da quello di tutti i suoi coetanei. L’unica differenza è che lui poi è diventato un calciatore, e quelle sfide le ha giocate.

L’epica del 1982

Partite del genere se ne vedono al massimo due in una generazione di calciatori. «Per noi italiani il fatto è inconsueto al punto che nessuno può dire di averne vista una uguale, oppure di sperare di vederne un’altra identica». Cominciava così Non è stato solo un incontro di calcio, il pezzo che Gualtiero Zanetti scrisse sulla prima pagina della Gazzetta dello sport del giorno dopo. In un’intervista alla Treccani il sociologo Nando Dalla Chiesa ha raccontato che «non tutto fu chiaro subito», ci sono voluti anni per capire cosa si era visto, e nel frattempo i bambini sono cresciuti e i loro genitori invecchiati.

Il tempo ha fatto quello che fa sempre: ha messo una distanza. Ma le cose grandi, ha detto ancora Dalla Chiesa, «passano la prova del tempo». È successo anche con la finale del 1982, quando fu ancora un Italia-Germania a segnare l’immaginario del paese. Era l’Italia che usciva dalle bombe e dal terrorismo e avrebbe trovato in quel Mundial un senso di rinnovamento e di riscatto.

Il 3-1 ai tedeschi generò entusiasmo e speranza. Ogni cosa si era illuminata. Il secondo gol del Santiago Bernabéu, quello di Tardelli, diventò per tutti l’Urlo, il nome di un’opera d’arte. Sei anni dopo, a una manciata di mesi dal suo addio al calcio, Tardelli rilasciò un’intervista a Giovanni Minoli. Ancora una domanda sull’urlo. Ma è vero che le dà fastidio quando le parlano di quel gol? Tardelli aveva 34 anni e il piglio di un uomo maturo: «Mi dà fastidio – disse – perché probabilmente credo che tutti si ricordino di Tardelli per quell’immagine lì. Non mi sembra giusto. Tardelli mi sembra che abbia vinto qualcosa. Rivederla tante volte un po’ mi dà nostalgia, tristezza. Mi ricorda una cosa stupenda che non potrà più tornare». 

Il video su YouTube

Lo sport non vive di ricordi. Però li crea. E questi danno vita a libri, film, tradizioni. Finché c’è stato spazio, Italia-Germania è stata tutta una rievocazione. Che è andata avanti fino a quando un altro Mondiale e un’altra sfida contro i tedeschi non hanno preso il posto delle precedenti nell’immaginario collettivo. Era il 2006, sono già passati quasi vent’anni. Dai ragazzi dell’82 a quelli di Berlino, dai gol di Paolorossi a quelli di Grosso e Del Piero, dal silenzio stampa dell’Italia di Bearzot alla testata di Zidane. Altri ricordi che hanno segnato una generazione successiva, quella dei quarantenni di oggi, che nel 1982 non erano ancora nati e al massimo hanno potuto vivere le memorie di quell’inatteso trionfo come un’occasione mancata.

«Sì, lo so chi è Tardelli. Ma di questo urlo francamente non so nulla». Apriti cielo. I più carini l’hanno definita una gaffe, gli altri hanno consigliato a Casadei di andare a ripetizione di storia. Sono gli stessi che avevano la sua età, o poco più, quando Tardelli urlava come un posseduto per il campo di Madrid. Quarantatrè anni fa. Italia-Germania ridotta a una nozione da imparare sui banchi di scuola, come le date dell’unità d’Italia, i sette re di Roma, i fenici e le tabelline.

Solo che questa materia non esiste. E i ricordi non li puoi inculcare. Al massimo puoi andare a cercarli su YouTube, come ha fatto Casadei sul suo smartphone appena è finito il collegamento con 90° Minuto. «Mi sono informato: ho visto il video», ha raccontato sollevato il giorno dopo. Adesso sa anche cos’è questo benedetto urlo. Tutto qui.

Chi è Casadei

Cesare Casadei aveva tre anni e mezzo quando Cannavaro ha alzato la Coppa del Mondo sotto il cielo di Berlino. Gli altri d’estate vanno al mare, lui al mare ci viveva, i suoi avevano un chiosco di piadine a Milano Marittima. È cresciuto con due fratelli più grandi, hanno cominciato presto a dire che era bravo col pallone. Ha preso il diploma di ragioniere, è andato a giocare in Premier League, ha capito la differenza tra il calcio italiano e quello inglese. Ha imparato in fretta a vivere da solo.

Gli chiedevano se aveva nostalgia delle piadine, che fantasia, e lui rispondeva che ci sono tante altre cose da mangiare a Londra. Quando è tornato in Italia, al Torino, ha sperato di essere più vicino a una chiamata in Nazionale, e adesso è arrivata. «Non voglio lasciarmi prendere dall’euforia. Vivo nel presente», ha detto a Coverciano. Avrà il suo Italia-Germania, andata e ritorno. Vive nel presente, mica nel 1982.

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