Ha cambiato il ritmo della musica di tutto il mondo ma non è mai stato una popstar, né una rockstar, né un jazzista. Secondo alcuni non è stato un musicista.

Non ha avuto una vera hit: il suo miglior risultato è un ventisettesimo posto nelle classifiche di Billboard. La sua carriera è stata breve: dalla metà degli anni ’90 al 2006, anno della scomparsa, trentaduenne, per una rara malattia del sangue, la Ttp, a cui si erano aggiunte le complicazioni del Lupus.

James Dewitt Yancey, noto anche come Silk, Jon Doe, Jay Dee e finalmente J Dilla è stato un producer. Producer è chi taglia e cuce basi hip-hop, usando giradischi, campionatori, batterie elettroniche. Dilla è stato il più influente di tutti i producer. Un musicista per musicisti. Anzi, il batterista e produttore Questlove lo ha definito: «Il musicista dei musicisti dei musicisti».

J Dilla ha collaborato con più grandi esponenti dell’hip-hop, del neo soul, del pop. Dagli inizi coi The Pharcyde, agli A Tribe Called Quest, Busta Rhymes, De La Soul, D’Angelo, Erykah Badu, nel periodo in cui il gruppo di musicisti e produttori detto Soulquarians rivoluzionava il pop della East Coast. Dilla ha influenzato Dr. Dre e Jay Z.

Il suo andamento ritmico filtra negli ultimi lavori di Michael Jackson ed è riconoscibile in tutte le produzioni di di Kendrick Lamar. Kanye West ogni volta che produce una canzone si domanda: «Se Dilla fosse vivo cosa ne penserebbe?»

Linguaggio universale

Il “Dilla Beat” è diventato linguaggio corrente per i dischi hip hop, trap, neo soul, jazz rock, dal progressive jazzistico dei circensi Snarky Puppy alle imprendibili evoluzioni degli australiani Hiatus Kaiyote.

Sulle varie piattaforme non si contano i vademecum che spiegano ai produttori e anche ai batteristi come ottenere il Dilla Beat, detto anche “Dilla feel”, “Drunken beat”, “Dilla time”. La cosa è singolare: un approccio ritmico inventato sulla batteria elettronica è diventato lo standard per i batteristi tradizionali che lavorano con tamburi, piatti, bacchette.  

Tra le infinite dissezioni, ricostruzioni, spiegazioni dei ritmi di J Dilla spicca, in italiano, il video sul canale Youtube di Corrado Bertonazzi, nel quale il Dilla Beat è spiegato bene da Matteo D’Ignazi.

L’anno scorso è uscito un libro monumentale costruito su oltre 400 interviste e innumerevoli colloqui con specialisti, Dilla Time di Dan Charnas (Swift). I capitoli sulla vita di Yancey si alternano ad analisi musicologiche sul suo modo di comporre e portare il ritmo, con tanto di schemi ritmici precisi al sessantaquattresimo.

È nato tutto a Detroit

Ma cos’è esattamente il Dilla Beat, e cosa significa per la musica del mondo? Prima di arrivarci ci sono un paio di precisazioni da fare. Storiche e ascetiche. Storia: Dilla ha vissuto e lavorato a Detroit, con brevi puntate a New York, un paio di tour europei, e una (triste) fase finale a Los Angeles. La Detroit di Dilla è la culla dell’Hip-hop, e prima ancora del Soul Funk con le prime fasi della Motown.

È la Detroit nata nel ‘700 come villaggio di coloni francesi nella regione dei Grandi Laghi (“la ville du detroit”, il villaggio dello stretto), che fu distrutta da un incendio. Dopo il passaggio ai coloni inglesi fu ricostruita secondo un’idea di estrema razionalità dal presidente della Corte Suprema del Michigan, August Woodward.

Woodward, già autore di un “Sistema della scienza universale”, ideò una mappa a triangoli rettangoli di 120 metri di lato: strade ariose, intervallate regolarmente da rotonde. Per aggiungere nuovi quartieri sarebbe bastato espandere la struttura con nuovi triangoli, puliti, razionali.

La storia non seguì i velleitari progetti di Woodward. Detroit sarebbe cresciuta nei decenni e secoli successivi in modo caotico. Meta di una continua immigrazione di manodopera nera attratta dall’industria dell’auto: General Motors, Ford, Chrysler. A Detroit la razionalità dell’impianto urbanistico è stata stravolta dalle ondate migratorie. Il ritmo architettonico è stato tradito e decostruito. È un aspetto essenziale per capire cosa sia davvero il Dilla Time.

In questa città violenta, disordinata, viva con un quantum di pericolo e morte, è cresciuto James Yancey. Figlio di una cantante d’opera che aveva abbandonato l’arte per occuparsi della famiglia e di un bassista jazz che girava il mondo per suonare negli halftime show degli Harlem Globetrotters, James ha passato la vita tra vari traslochi da un quartiere all’altro.

Quello stranissimo beat

Prima di riuscire ad articolare parola James si rivelava in possesso dell’orecchio assoluto. Il suo primo strumento è stato un rullante. Con i primi exploit del rap ha capito quale sarebbe stata, musicalmente, la sua strada e ha rinunciato alla scuola di ingegneria aeronautica.

Da adolescente era riuscito a modificare una doppia piastra a cassette per poter creare dei loop a partire dai dischi, e a produrre i suoi primi beat. Moltissimi beat. Stranissimi beat.

Qui l’aspetto ascetico. A qualsiasi ora fosse andato a dormire il monaco del beat si svegliava alle sette. Passava due ore a pulire perfettamente il suo studio mentre ascoltava musica. Poi si sedeva ai giradischi e campionatori (il suo Akai Mpc 3000, progettato da Roger Linn, è più uno strumento musicale che un sampler), e cominciava a produrre beat uno dietro l’altro. Fino all’ora di pranzo. Poi anche di pomeriggio. La sera la passava allo strip club vicino casa. Il giorno dopo ricominciava. Moltissimi, stranissimi beat, si diceva.

In una sera del 1994 il batterista Ahmir Thompson, più tardi diventato famoso come Questlove ha appena concluso la sua performance fuori da un club della Carolina del Nord. Il gruppo successivo sono i Pharcyde, con i beat di Dilla.

Pochi secondi di ascolto e Questlove, già in macchina e pronto ad andarsene, resta immobile. Il ritmo, in particolare la cassa, di quei brani è tutto “sbagliato”. Gli si accende qualcosa nella testa.

Qualche anno dopo Dilla è già un’autorità nel mondo dei producer. Siamo agli Electric Lady Studios di New York, gli studi fondati da Hendrix, e si sta lavorando al secondo album di D’Angelo, Vodoo.

Il bassista è una leggenda musicale, l’inglese (figlio di italiani) Pino Palladino, che ha collaborato con tutti, da Paul Young a Eric Clapton, a Jeff Beck. L’impostazione ritmica dei brani viene da Dilla, e Palladino è in difficoltà, gli viene chiesto di ritardare in modo esagerato, “sbagliato” su certi tempi della battuta. Palladino ricorderà quella registrazione così: “quel modo di stare sul tempo è inquietante”.

Il Dilla beat

Dunque, cos’è questo dannato Dilla beat? Immaginiamo un ritmo di batteria semplificato all’osso, in quattro quarti. È formato dalla cassa che sta sul battere (l’uno e il tre), il rullante che sta sul levare (il due e il quattro) e un charleston che suona su tutti gli ottavi. Il Dilla Beat consiste quasi sempre nel dare al charleston un tempo a metà tra gli ottavi semplici e le terzine.

Al rullante un po’ di anticipo, in modo che si scontri con il charleston (una quasi coincidenza che si chiama “flame”). Alla cassa in genere un leggerissimo ritardo, facendola suonare non solo sull’uno e sul tre, ma un po’ ovunque, anche gruppi di due o tre note (con altri “flame” che spuntano).

Il risultato è un ritmo irregolare, nel quale l’ascoltatore attento e abituato riesce a trovare delle “pocket” delle “tasche” dicono gli americani, di senso, di “appoggio” del ritmo. Ma che vengono subito contraddette da altri colpi che arrivano in modo strano. L’equivalente temporale di una prospettiva alterata.

Qualche esempio dalla discografia di Dilla in cui il suo beat è più evidente e riconoscibile: Runnin' dei Pharcyde (1995); Go Ladies degli Slum Village (2000) il primo gruppo di Dilla: per trascrivere esattamente il brano bisogna dividerlo in 192 esimi.

Tutto il disco Welcome 2 Detroit (2001), primo vero album solista di J Dilla, contiene alcuni dei Dilla Beat più radicali, ad esempio nei brani "Pause" e "Come Get It". Bisogna aggiungere tutto Donuts (2006), pubblicato tre giorni prima della sua morte. È stato realizzato nella sua stanza d'ospedale usando un giradischi a 45 giri e un campionatore Boss Sp 303.

In fondo si tratta di poliritmi. Una versione più radicale e urban di quello che è in corso nella musica di derivazione africana, o più in generale non europea e colta, da molto tempo. Anche una tarantella è un poliritmo, un 2/4 che si scontra con un 3/4 e gli dà una caratteristica beffarda. La chiave dei riti tribali non sono tanto i ritmi ossessivi come diceva Franco Battiato, ma certe irregolarità che rompono la ripetizione.

L’Occidente moderno pensa il ritmo in “uni”, specie dall’invenzione del metronomo, a metà dell’Ottocento, in poi. La musica del mondo non pensa in “uni”, ma in “chiavi” ritmiche che hanno sempre qualcosa di irregolare. Poliritmia. Il blues e il jazz hanno importato dall’Africa lo swing feel, l’andamento terzinato che fa oscillare un normale 4/4, il funk ha introdotto una miriade di accenti che tendono a risolvere sull’uno della battuta liberando un’energia ritmica enorme.

Il reggae (specialmente il ritmo “one drop”) è la negazione di tutti i canoni ritmici occidentali. Il 2 e il 4 sono scanditi dalle chitarre ritmiche. La cassa e il rullante insieme (!) battono il terzo tempo. Il basso suona costantemente in ritardo. L’uno è desolatamente vuoto.

Il suonare in anticipo o in ritardo rispetto alla scansione del metronomo è un classico dei musicisti che hanno un certo tipo di formazione. In italiano si dice “tirare indietro” o “tirare avanti”, in inglese suonare “laid back” o “on top”. Parametri tanto necessari quanto impossibili da segnare su uno spartito. Cavalcare le irregolarità ritmiche è quello che Keith Richards chiama: “l’antica arte di ondeggiare”.

Nel caso in questione, che è quello della pop music, la tendenza alla poliritmia è passata dall’Africa al blues, al jazz, al rhythm ’n blues, al funk, al rap, al pop. L’Africa sarà anche come diceva Hegel il “continente senza storia”, il “continente bambino”, ma ha restituito all’Occidente il (poli)ritmo.

L’elemento su cui si innesta l’ultimo secolo di grande musica è africano. Se al ritmo del metronomo corrisponde il tempo in “uni”, misurabile, della razionalità classica, e del povero sceriffo Woodward, al poliritmo corrisponde l’irregolarità, il confronto con l’irrazionale, l’evocazione di una ontologia plurale. Pagana.

Il Dilla Time è diventato oggetto di studio: ci sono lavori accademici che analizzano il modo di suonare di Dilla, con risultati teorici di alto livello, c’è il laboratorio Musical rhythm in the age of digital reproduction, tenuto da Annie Danielsen.

Tutta l’analisi del modo afro-americano di portare il ritmo, grazie anche all’eredità di scrittori-pensatori come Le Roi James, Olly Wilson, il musicologo Charles Keil, e ultimamente anche Vijay Iver, sta riscrivendo il rapporto tra realtà e rappresentazione in una prospettiva diversa.

E siamo al cuore della questione “woke”. Essere woke non significa mettere regole sull’uso delle parole, come fanno in genere gli eredi parecchio endogami di una “svolta linguistica” nata già molto discutibile. Essere woke significa restituire a culture capite con superficialità e disprezzo esostista, la loro forza poietica e rappresentativa. Più che la parola vale il ritmo. Il poliritmo. Il Dilla Beat, anche.

© Riproduzione riservata