James Senese ha interpretato Napoli con la sua stessa vita

Con James Senese va via l’ultimo pezzo della Napoli del Novecento: quella che risorge dalle macerie, che integra le cosiddette differenze e anzi ne fa tesoro, riuscendo in modi istintivi e creativi a liberarsi dal peso della povertà e dell’arretratezza. La musica graffiante e intimamente agitata del musicista di Miano, quartiere strutturalmente periferico dell’area nord della città, riusciva a scavarsi un solco nella tradizione apportando sonorità e ritmiche inedite, sincopate, jazzistiche più che blues. Militari e vinili Figlio della guerra, Gaetano Senese era nato nel 1945 da padre americano, uno dei tanti militari del North Carolina di stanza nella capitale del meridione, che alla loro ripartenza lasciavano dietro di sé una scia di ricordi, qualche parola di gergo e spesso un cumulo di vinili altrimenti irreperibili: e proprio su quei dischi di Glenn Miller, di swing e boogie-woogie Senese imparerà a suonare il primo sassofono a meccanica ridotta regalatogli dalla madre, che idealmente non abbandonerà mai – al contrario della scuola, lasciata dopo la quinta elementare – nemmeno quando si ritroverà pochi anni dopo a esibirsi nei primi concerti e a trovare compagni di avventure con cui cimentarsi in embrionali canzoni, poi rapidamente incise già all’inizio degli anni Sessanta. Napoli, il tempo e Dio. La fotografia di Mimmo Jodice e i suoi scatti senza fine Il sodalizio forse più emblematico è quello con il coetaneo Mario Musella, altro figlio della guerra ma di padre cherokee, con cui Senese condivide il senso di insofferenza, il bisogno di accentuare la propria diversità come forma di ribellione al conformismo e il desiderio di infondere sonorità nuove alla musica leggera. La fine degli anni del boom economico e del sacco urbanistico di Napoli (mirabilmente dipinti nel film Le mani sulla città di Francesco Rosi) lasciano infatti spazio alla rabbia giovanile, che per un amante del jazz non possono non trovare soddisfazione nella rivoluzione realizzata dall’approccio modale di John Coltrane e da quello cool di Miles Davis, per non dimenticare le influenze dei Weather Report e degli Area. Il sassofono lento di Marsalis: «Che noia la tecnica dei virtuosi» Gli anni della contestazione studentesca sono gli stessi in cui viene fondata la band Showmen, tra gli altri con Musella e con il batterista Franco Del Prete, che si produrrà in numerose cover e nella splendida versione di Un’ora sola ti vorrei con cui vincerà nel 1968 il Cantagiro. Allo scioglimento del gruppo seguirà la formazione del progetto Napoli Centrale, in cui si alterneranno alcuni tra i musicisti di nuova generazione destinati a segnare per sempre la canzone italiana e a marchiarla con il cosiddetto Neapolitan Power: parliamo ovviamente di Tullio De Piscopo, Ernesto Vitolo, Rino Zurzolo, Joe Amoruso e naturalmente Pino Daniele, inizialmente ingaggiato come bassista. Con molti di loro i rapporti non sempre saranno idilliaci, per reciproche scontrosità e asperità: di certo James – come veniva e viene chiamato a Napoli – non aveva né la diplomazia né la retorica tra le sue doti principali, ma proprio per questo il suo pensiero sapeva deflagrare genuinamente e schiettamente. Napoli ha trasformato in musica anche le sue contraddizioni Un artista leggendario Schivo con la stampa e indifferente al successo commerciale, Senese ha suo malgrado saputo costruire una leggenda intorno alla propria figura, che ha influenzato intere generazioni di artisti, musicisti e anche scrittori a lui successivi: il romanziere Peppe Lanzetta lo ricorda nel suo libricino Elogio di James Senese come il suo primo contatto con l’“arte”, capace di dare voce agli ultimi della terra, agli esclusi e agli sfruttati. Dieci anni senza la voce di Pino Daniele, il napoletano che non voleva essere bandiera Basti ricordare le parole del celebre brano d’apertura del disco d’esordio dei Napoli Centrale, dal contenuto civile e politico proprio perché non ideologizzato: «Campagna, campagna / comm’è bella ‘a campagna / ma è cchiù bella pe’ ‘o padrone / che se enghie ‘e ssacche d’oro». Ma di Senese va ricordata anche la padronanza del gergo misterico con cui i musicisti hanno tramandato i loro segreti, la cosiddetta “parlèsia”, nonché la capacità di generare una mirabolante aneddotica sul proprio conto e di prodursi in pirotecnici e inconsapevoli sfottò. Come in occasioni delle sue riflessioni su attualità o politica, precedute dalla proverbiale interiezione «Alla quale…», o come quando a un giornalista particolarmente pervicace, che continuava a far precedere alle sue domande una serie di citazioni eccessivamente erudite, replicò indicando il buffet con i dolci: «Guagliò… ma vatte a magnà ‘na pasta!». Il musicista intemperante e aggressivo ritratto con Massimo Troisi e Lello Arena nel film No grazie, il caffè mi rende nervoso non è alla fin fine tanto dissimile dall’originale: un sassofonista tagliante, capace di scavare nelle armonie e di creare atmosfere estremamente complesse talvolta anche su pochissimi accordi, generando perfino polemiche. Come nel celebre brano del nuovo millennio Maria Maddalena, all’indomani dell’uscita già censurato dal Vaticano. “Ricomincio da tre”, la vera storia della sceneggiatura Dopo la scomparsa della moglie nel 2022 la salute di Senese era andata progressivamente peggiorando, fino alla tragica polmonite che ha fiaccato il suo fisico già debilitato. Della sua carriera si ricorderanno non solo i tanti dischi, le collaborazioni sulla scena internazionale con jazzisti come Ornette Coleman, Gil Evans o Lester Bowie, ma soprattutto la capacità di impersonare Napoli nella propria stessa vita, inclusiva, melodicamente meticcia e vissuta sempre sulla propria pelle. Come dichiarava Charlie Parker in una delle citazioni da lui predilette: «Le cose che ascoltate dallo strumento provengono dalle esperienze». E, oggi, di lui ci resta l’esperienza che è l’attraversamento della sua musica. *scrittore e sceneggiatore