In occasione della Biennale di Architettura di Venezia gli artisti Jimmie Durham e Maria Thereza Alves espongono nella Serra dei Giardini Reali una serie di opere (tavoli, vasi e un lampadario) selezionate dal collettivo di progettazione LABINAC, a cui i due artisti hanno dato vita allo scopo di realizzare oggetti e supportare le opere artigianali delle popolazioni indigene dell’America Latina.

Arte, politica e pensiero critico sono strettamente intrecciati nella poetica di Jimmie Durham che, come egli stesso ha dichiarato, non sa separare l’arte e la politica da altri aspetti della vita.

Nato in Arkansas nel 1940, Durham vive oggi tra Napoli e Berlino, ma si definisce un senza fissa dimora. Le sue origini Cherokee lo hanno portato a confrontarsi con i temi del postcolonialismo e delle contraddizioni di una storia scritta dai vincitori. Ha affrontato tali questioni sia nel corso della sua pratica artistica, sia nel suo passato da attivista all’interno dell’American Indian Movement. Nelle sue opere meno recenti risulta evidente il rimando visivo a quella che usualmente identifichiamo con l’estetica dei manufatti artistici delle popolazioni indigene americane, che utilizzano materiali come legno, pelli e perline in un variopinto accostamento cromatico. Attingere a quella tradizione gli ha permesso di mettere in discussione la visione occidentale del mondo e di affrontare il tema dell’identità culturale.

Tra le opere più note di Durham c’è Pocahonta’s Underwear, un lavoro del 1985. Si tratta di un paio di mutandine rosse decorate con piume, conchiglie e perline, che fanno riflettere, non senza una certa ironia, sugli stereotipi con cui l’Occidente ha rappresentato i nativi americani. Allo stesso modo, tra il 1988 e il 1992, con l’opera Malinche and Cortés l’artista ha evidenziato l’appiattimento e la semplificazione storica messa in atto nella narrazione di una figura complessa come quella di Malinche. Per raffigurare la principessa messicana che circa un secolo prima di Pocahontas venne venduta come schiava e poi donata a Hernán Cortés, del quale divenne poi traduttrice e amante, Durham ha realizzato una scultura utilizzando oggetti in legno (forse lo schienale di una sedia), tessuti e abiti (tra cui un reggiseno) e gioielli. L’opera oscilla tra stilizzazione e figurativismo. Racconta l’artista: «Volevo mostrare l’irrealtà del mito, dell’idea. Ho scolpito un piede dall’aspetto realistico. Avevo poi un pezzo di yucca cactus che sembrava un piede, quindi l’ho utilizzato».

Le sculture di Durham sono realizzate attraverso l’assemblaggio di diversi oggetti ed elementi che, se nel dettaglio mantengono ognuno la propria riconoscibilità, nell’insieme danno vita a immagini nuove. Raccogliendo oggetti provenienti da ogni dove e materiali trovati li trasforma giustapponendoli l’uno all’altro in un processo che lui stesso definisce «combinazione illegale di oggetti rifiutati».

Nel 1994 Durham si è trasferito in Europa, dove ha iniziato a impiegare sempre più spesso la pietra, materia prima per eccellenza dell’architettura, intesa quest’ultima come struttura organizzativa che nel mondo occidentale, sempre più lontano dalla natura, condiziona gli stili di vita. In Europa Durham ha cominciato a prendere a sassate le nostre convinzioni e molti degli oggetti che simboleggiano la nostra vita di comfort e benessere economico. Non lo ha fatto solo in maniera metaforica: nel 1996, nel corso di una residenza in Francia, ogni mattina usciva in cortile per lanciare pietre contro un frigorifero, azione che ha dato vita a una scultura che evoca un martirio, dal titolo St. Frdidge. Durham ha utilizzato le pietre e il loro peso schiacciante in diversi lavori. Ha distrutto automobili e velivoli con massi enormi. Ancora la fascinazione per la pietra lo ha portato nel 2019, alla Biennale di Venezia (dove è stato insignito del Leone d’oro alla carriera), a presentare una grande lastra di serpentinite trovata a Berlino anni fa. Racconta che quando decise di farci un lavoro voleva narrare semplicemente la storia di quella pietra dalle venature seducenti estratta in India per poi essere spedita a Berlino. Il racconto della sua storia è parte integrante dell’opera e allude alla necessità dell’Occidente edificatore di ricorrere a materie prime di altre aree geografiche estratte da lavoratori locali sottopagati. La straordinarietà di questo minerale, la sua “magia” come la definisce l’artista stesso, sta nel fatto che «le prime forme di vita sulla terra probabilmente nacquero dentro questo tipo di pietra, un tipo di vita prebatterica chiamata Archea». Durham ha evidenziato così che la maggior parte della vita sul pianeta è fatta da organismi unicellulari invisibili di cui sappiamo poco, «così come sappiamo poco degli animali».

Alla Biennale di Venezia del 2019 Durham ha presentato una serie di sculture, realizzate l’anno precedente, che rappresentano i mammiferi più grandi d’Europa, come l’orso, il cervo o il cavallo. Ancora una volta si tratta di assemblaggi nati a partire da teschi di animali (già presenti in diverse sue opere degli anni Ottanta), il cui corpo viene poi ricostruito dallo sguardo visionario dell’artista mettendo insieme mobili, tessuti, tubi metallici e altri materiali. «Mi sembra – dice l’artista – non ci sia interesse se non per gli animali domestici o di allevamento da uccidere per mangiarli».

La responsabilità che abbiamo in quanto appartenenti a questo mondo, è alla base della poetica di Durham, responsabilità che egli riesce ad alleggerire con un atteggiamento ironico attraverso il quale a volte ci ricorda anche che in molti casi la specie umana non dovrebbe prendersi troppo sul serio, perché dopotutto, come scrisse nel 2006, «l’umanità è un progetto non completato».

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