Il modo migliore per non dimenticare Jodice è farlo sparire

Ciò che colpisce di più di Mimmo Jodice, scomparso martedì 28 ottobre 2025 a 91 anni, è che abbia lasciato in eredità soltanto immagini in bianco e nero. È stato associato spesso, un po’ per pigrizia, un po’ per mancanza di altri riferimenti, alla generazione degli autori di Viaggio in Italia, anche se aveva dieci anni più di Luigi Ghirri. Lui, vero artista mediterraneo, irriducibilmente napoletano, restò aggrappato fieramente al bianco e nero, lasciando la sperimentazione sul colore, che si affacciava timidamente nel mondo dell’arte a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, ad autori cresciuti nella nebbia padana. È solo apparentemente una contraddizione, se è vero che quando l’arte è ricerca, si desidera vedere soprattutto ciò che non si ha. E Napoli, per chi ci abita, è una Kodachrome super satura. Lui ha scelto i neri nerissimi e gli splendidi nitori di bianchi e grigi. La riflessione sul linguaggio Ma ciò che ha accomunato Jodice agli altri autori più giovani era certamente il dialogo con l’arte contemporanea che aveva, per chi di più, per chi di meno, incrinato l’interesse per la documentazione pura e semplice. Era un atteggiamento che potremmo sintetizzare con una massima di Gerry Winogrand: «Io fotografo per vedere l’immagine impressa sulla pellicola». La consapevolezza, cioè, che il rapporto con il mondo non solo è mediato dal mezzo fotografico, ma che il medium può produrre nuovi significati. Sulla pellicola, insomma, si imprime la realtà materiale, ma ciò che ne possiamo ottenere attraverso il linguaggio può essere molto di più. Per capirlo si vadano a vedere i lavori dell’inizio, a cavallo del 1970, dove Jodice sperimenta e riflette sul linguaggio stesso della fotografia come faceva, negli stessi anni, Ugo Mulas con le sue Verifiche. Sono lavori che, giustamente, sono stati mostrati nella recente mostra a Gallerie d’Italia a Torino, senza i quali sarebbe difficile capire ciò che il fotografo ha realizzato dopo. Questa attenzione alla natura stessa del mezzo espressivo che si era scelto ha fatto di lui un autore, un intellettuale, un artista consapevole di esserlo. Non per tutti i fotografi è così. Napoli, il tempo e Dio. La fotografia di Mimmo Jodice e i suoi scatti senza fine Una dinamica delicata Ora che il suo percorso si è chiuso, speriamo non si commettano gli errori che, troppe volte, sono stati commessi in passato in casi analoghi. La cosa più sbagliata sarebbe cadere nella tentazione di massimizzare la visibilità dell’artista appena scomparso con affrettate mostre prêt-à-porter e un proliferare di pubblicazioni raffazzonate in stile “best of”. Il modo migliore per celebrare la memoria di Mimmo Jodice, almeno per ora, sarebbe farlo sparire. Non mostrare più le sue immagini. È l’unico modo affinché, tra dieci anni, vi sia ancora chi desideri vederle. Non si tratta di condannare all’oblio chi non se lo merita. Le immagini hanno in se stesse un’energia che ci trasmettono con generosità. Ma è una dinamica delicata. La prolungata esposizione può esaurire questa magia e, c’è chi dice, che le fotografie occorra farle riposare. È una questione di immaginario, di aura forse. Ma occorre fare attenzione. La sovraesposizione è l’anticamera dell’indifferenza. Far sparire Jodice, però, non significa dimenticarlo. Anzi, è vero esattamente il contrario. Il lavoro quanto mai necessario, anzi urgente, è creare le condizioni perché tutto il potenziale del suo corpus di opere possa esprimersi e dispiegarsi alla lunga distanza, ben oltre l’entusiasmo passeggero del momento. Occorre che lo si studi nelle università con serietà accademica, che i professori assegnino tesi su di lui. E non solo da parte dei docenti di fotografia, ma anche di letteratura, filosofia, storia dell’arte. E soprattutto di archeologia, data la natura stessa del suo sguardo sul tempo e sulle stratificazioni della memoria. È necessario uno studio approfondito, metodico, filologicamente rigoroso sull’archivio. Serve qualcuno che distingua, a ragion veduta e con competenza critica, il “canone” dell’opera da ciò che è marginale o circostanziale, e che individui le parti inedite davvero rilevanti, quelle che possono ancora aggiungere qualcosa alla comprensione del suo lavoro. Il lavoro serio, insomma, quello che si farebbe con i grandi scrittori o pittori del passato e che ai fotografi italiani, purtroppo, non tocca quasi mai. Un lavoro che richiede pazienza intellettuale e rigore metodologico. Tutto questo richiede tempo e cura, una dedizione che non cerca risultati immediati. Il prezzo da pagare, inevitabilmente, è la visibilità immediata, il clamore del presente. Ma è un prezzo necessario per costruire qualcosa di duraturo. Quel Viaggio di Luigi Ghirri che cambiò il paesaggio italiano