Gli stradari delle città somigliano per qualche verso alle costellazioni. Le strade sono come le linee immaginarie che congiungono le stelle, descrivendo forme e percorsi il cui limite coincide solo con la fantasia di chi guarda. Qualcuno tuttavia potrebbe obiettare che strade e costellazioni stanno nella dirittura di due scienze ben codificate: l’urbanistica e l’astronomia. Eppure, in una notte limpida o durante un viaggio senza mappa, chi non ha pensato almeno una volta di derogare agli schemi noti e inventarsi una sua costellazione, un suo percorso immaginario? È la memoria delle nuvole: materia irriducibile che ci illudiamo di comporre in figura. Tant’è.

Per esempio, a Cagliari, tra via Luxemburg e via Mossa, c’è una “ruga” intitolata a Joyce Lussu, la medesima città in cui è nata Fausta Cialente poco prima che il Ventesimo secolo vedesse la luce. Ecco, quella strada e questa nozione mi sembrano ora qualcosa di più di due punti slegati nello spazio e nella memoria.

Fausta Cialente e Joyce Lussu. Due donne, due ferventi antifasciste, che su fronti geograficamente distanti hanno preso parte alla Resistenza, due autrici, due traduttrici. E di recente protagoniste, per vie diverse, di due pubblicazioni che le riguardano. L’una è la ristampa nottetempo di Un inverno freddissimo (a cura di Emmanuela Carbé), romanzo di Cialente del 1966 da molti anni disperso nei rivoli del collezionismo (l’ultima ristampa per conto di Feltrinelli risale al 1976); l’altra è la biografia che Silvia Ballestra ha dedicato a Joyce Lussu, dal titolo La Sibilla (Laterza), quasi un secondo tempo di quel Joyce L. Una vita contro (Baldini Castoldi Dalai), uscito per mano della stessa autrice nel 1996. Due vite, due ritorni. Due libri, distinti e paralleli.

Vale ancora quello che scriveva Plutarco nella Vita dedicata ad Alessandro Magno? Il ritrattista sa cogliere le somiglianze tra due soggetti dagli occhi, perché in essi è la sorgente del carattere, mentre il biografo – a cui aggiungerei: lo scrittore – sta attento ai “segni dell’anima”, ed è attraverso quelli che si cimenta nel racconto di una vita.

Dall’inverno alle armi

Il volume di Ballestra riproduce in copertina un ritratto fotografico di Lussu, datato 1942. Aveva pressappoco trent’anni. Gli occhi chiari, accesi. La posa seria che pure non rinuncia a un sorriso. Lo sguardo focalizzato oltre, verso l’orizzonte. La bocca inconfondibile, dal disegno deciso. Il colletto stropicciato sotto il maglione, un particolare di sfondo che spezza l’ordine del ritratto facendo irrompere qualcosa del carattere, come un sintomo involontario, un lapsus.

Per analogia, allora, vale la pena scomodare Plutarco e accostare a questo un ritratto di Fausta Cialente, per sondare l’effetto. Ne ritrovo uno proprio sulla copertina di un’altra curatela di Emmanuela Carbé, La scrittura necessaria (Artemide 2021), ovvero il diario di guerra della scrittrice negli anni della militanza antifascista in Egitto. L’incarnato limpido su di un volto scarno, completamente rivolto alla pagina che sta leggendo. Le perle al collo, la fede, il bracciale compongono una sorta di triangolo, la cui cuspide punta alle labbra serrate, dietro le quali si intuisce – o si immagina – una voce armonica e grave. Sono due donne così diverse. Entrambe riflettono esistenze non conformi e distanti, eppure mi appaiono simili. Per un attimo sono le testimoni di uno spirito comune.

Un inverno freddissimo è contemporaneamente un libro-viaggio e un coro di voci diseguali. Una madre vedova (l’indimenticabile Camilla), i suoi figli, i suoi nipoti, le ansie, i traumi nell’anno più freddo di sempre, quel 1946-1947 in cui l’Italia usciva sanguinante dal Secondo conflitto mondiale. I legami sono spezzati, i fantasmi si aggirano tra i vivi, sciolti infine dal loro vincolo di essere nient’altro che ombra. Tutti insieme, stretti in una casa grande quanto una soffitta, a Milano.

Giunti alla fine del libro viene da domandarsi quale ne sia il motivo dominante, la struttura invisibile capace di scandire una trama complessa e densa, mai compiaciuta. Come le saghe familiari dell’Ottocento europeo, ogni fisionomia si staglia in maniera puntuale, ogni atto è compiuto nel segno di un’appartenenza, di un’intima condizione del singolo. Quel motivo, alla fine, parrebbe proprio il senso del freddo e la sua meccanica.

Il freddo come matrice latente dei singoli gesti: il legame morboso del figlio verso la madre (un’ombra dall’Agostino di Moravia) si accende quando il freddo di una casa li porta a stare abbracciati, oppure il rifiuto del medesimo abbraccio da parte della figlia nei confronti di Camilla. Il gelo scuote la ragione dalle fondamenta, esaspera l’indole fino a quando non si svela nel suo dolore di fondo. Reduci, sopravvissuti, affamati, desiderosi di aria e di spazio, ciascuno nel romanzo di Fausta Cialente è messo a confronto con una prosecuzione, per altri mezzi, del proprio retaggio.

L’inverno della coscienza può trasformarsi in una primavera solo rinnegando i ruoli che il vecchio mondo ha attribuito loro. Quello stesso mondo che ha legittimato la razzia nazi-fascista, saccheggio delle anime prima ancora che dei beni materiali, distruzione dell’identità prima ancora che orribile maschera da rinnegare. È in questo ganglio di ribellione che la vocazione, il talento, in ultimo il desiderio di ogni individuo – sciolto dalle costrizioni della famiglia, primo laboratorio sociale e culturale – rappresentano le nuove armi di una lotta a venire.

Dare voce alle voci

È strano, ma per nulla incoerente, che tra le traduzioni celeberrime di Fausta Cialente emerga soprattutto quella del Giro di vite di Henry James. Esiste una spiccata continuità tra le dinamiche di Un freddissimo inverno e uno dei riconosciuti capolavori della letteratura gotica. Anche nel racconto di James, infatti, gli spettri sono custodi di un tempo oscuro, dal quale i vivi vorrebbero affrancarsi per realizzare pienamente la missione che li assilla: illuminare il mondo con il proprio passaggio. Tuttavia, come ci insegna la protagonista della parabola ambientata a Bly, non sempre questo è possibile, soprattutto quando la continuità tra sé e i propri fantasmi è diventata indissolubile.

Anche l’opera di traduzione svolta da Joyce Lussu è in continuità con la sua vocazione. Davvero si può dire che la scoperta di vere e proprie tradizioni poetiche, di autori fino a quel momento sconosciuti, sia stato il proseguimento con altri mezzi di quella Resistenza che per molti è diventata opposizione al mondo capitalista e imperialista.

Joyce Lussu ha tradotto, tra gli altri, il turco Nazim Hikmet, l’angolano Agostinho Neto, i poeti albanesi, ha curato addirittura una rara raccolta di Canti eschimesi pubblicata dall’edizione dell’Avanti! nel 1963. Dare voce alle voci, perché attraverso la poesia giunga ai lettori il segno di una condizione che è sì lontana da loro, ma che gli appartiene; perché la ribellione per la propria liberazione è un tema e un patrimonio universale, il cui respiro non dissona mai, nemmeno quando parla un’altra lingua.

Di tutte le scoperte nate dall’acribia e dal genio di Joyce Lussu è il Diario dal carcere di Ho Chi Minh quella cui resto più affezionato. Prigioniero nel 1943 della polizia di Chiang Kai-shek, il futuro padre dell’indipendenza del Vietnam scrive centoquindici quartine e poemetti Tang in stile classico su uno smunto quaderno in caratteri cinesi e non vietnamiti, per evitare che i carcerieri si insospettissero davanti a una lingua a loro ignota.

In quel suo diario in versi, che non è certo un diario all’occidentale, sono riportati tutti gli aspetti osceni dell’esistenza di un carcerato, per di più in terra straniera: parassiti, fame, crudeltà, puzza, freddo, ferocia delle catene. Ma niente può piegare la volontà e il desiderio di libertà di Ho (e della sua traduttrice): «Pur con le gambe e i polsi / strettamente legati / ovunque sento uccelli / e il profumo dei fiori». Sono versi di Ho Chi Minh, ma la voce che giunge fino a noi è quella di Joyce Lussu.

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