Le villette di provincia nell’America profonda sembrano tutte uguali. Lo scantinato è il luogo dell’ordine, dell’organizzazione maniacale e del caos che riflette la mente dei malvagi. Il basement accomuna commedie brillanti e noir, horror e thriller psicologici. È il sottosuolo dostoevskiano sopra la superficie dell’esistenza borghese
Bastano pochi passi per scendere nelle tenebre della propria mente e immergersi nella paura. In fondo a quei gradini c’è il luogo archetipo del male cinematografico, da decenni regno terrorizzante non solo americano: basement, lo scantinato. Corpi inanimati, cadaveri, prigionieri, vittime in attesa del fato: Norma Spool in Bates, la madre imbalsamata di Norman Psyco Bates, o una delle ragazze che Jame “Buffalo Bill” Gumb (Il silenzio degli innocenti) scuoierà. L’ispirazione del basement è spesso tratta dalla realtà, dalla cronaca nera, americana od europea.
Le villette di provincia, soprattutto nell’America profonda sembrano tutte uguali. Danno forma al sogno piccolo-borghese: entrando nell’ingresso è facile vedere i gradini che salgono al piano superiore, e nel sottoscala si apre la porta per scendere nel seminterrato. C’è quello ben sistemato come dispensa dei cibi, gli utensili e gli hobby del padrone di casa, anche i più indicibili. È al contempo il luogo dell’ordine, dell’organizzazione maniacale, e del caos che riflette la mente dei malvagi, rifugio per il male e palcoscenico del vizio. C’è quello dove la famiglia di “un luogo tranquillo” si chiude per evitare ogni pur minimo rumore per non attrarre le creature aliene, e quello dove la musica soffoca le grida dei rapiti, o dove si conservano i resti nauseabondi dei misfatti.
I generi
Il basement accomuna diversi generi. Commedie brillanti come Mamma ho perso l’aereo dove il monello Macaulay Culkin organizza trappole contro i ladri, o noir come Suburbicon (regia di George Clooney su una sceneggiatura dei fratelli Coen), città-modello del sogno americano di fine anni ’50 dove il piccolo protagonista scopre il padre sculacciare la sorella della madre defunta con una racchetta da ping-pong. Oppure horror anche dozzinali della vena splatter e thriller psicologici che sono entrati nella storia del cinema.
Una delle pellicole fondamentali del ricco filone basement è Il silenzio degli innocenti dove il sottosuolo della villetta del malvagio è teatro di una delle scene madri del film di Jonathan Demme. Protagonista e antagonista si sfidano nel buio trafitto da lame di luce e fioche lampadine che illuminano ciò che si cela nell’antro nero dell’anima del malvagio, che inghiotte le sue vittime, come la giovane attirata con l’inganno dopo esser scesa da un’auto icona dei film americani dell’ultimo mezzo secolo: la Volvo 240.
Ed ecco che il pozzo del film riprende la realtà di quello scavato nel basement della villetta di Gary M. Heidnik, una delle figure più studiate dei serial killer statunitensi, accusato del rapimento di almeno sei donne e l’uccisione di almeno due: ma lui ci ha tenuto più volte a sostenere, prima dell’iniezione letale (posteriore all’uscita del Silenzio degli innocenti), che erano molte di più quelle rapite, malmenate, e poi violentate incoscienti o anche dopo la loro morte.
Le ossessioni
Il padrone dell’immaginario cinematografico sui maniaci omicidi seriali è però Ed Gein, il demone di Plainfield, villaggio immerso nelle pianure del Wisconsin. Innamorato della madre, non più autonoma dopo un infarto, la sua morte scatenerà l’istinto di Ed per la necrofilia, la riesumazione dei cadaveri che unisce all’abilità di scorticare le vittime per farne oggetti con cui abbellire la casa. Troviamo qui le origini delle ossessioni di Bates e di “Buffalo Bill”, l’imbalsamazione e la lavorazione della pelle umana per affermare un’identità che si vuole diversa da quella scritta sulla carta d’identità.
Follia, raptus e al contempo pianificazione, metodicità, scaltrezza e il santuario della propria mania accomunano i proprietari del basement.
Jeffrey Dahmer conserverà i resti umani di alcune delle sue vittime da predatore omosessuale nel seminterrato della casa della nonna con la quale conviveva, dopo l’infanzia difficile che accomuna praticamente tutti i serial killer predatori. I vicini si lamenteranno del fetore che giunge sino a loro ma non basterà per rivelare l’orrore immerso negli acidi dal “mostro di Milwaukee”, che sarà tradito solo molto tempo dopo dalla sua mania di collezionare parti smembrate di ragazzi, e all’occorrenza cucinarle.
Prima di lui John Wayne Gacy aveva dimostrato come un basement ben congegnato fosse funzionale al principio della libertà individuale americano, dove il padrone di casa ha il diritto assoluto di farsi gli affari propri, anche i più turpi e senza una prova sufficientemente forte e credibile non fosse possibile scoprire l’antro dove venivano soddisfatte od occultate le proprie follie. Il killer clown è stato ribattezzato per il suo impegno da volontario negli ospedali per intrattenere i bambini malati. Pogo il clown, nome del personaggio inventato da Gacy – coniugato con figlie – negli anni ’70 ha rapito, torturato e ucciso oltre trenta adolescenti, tutti maschi; i cadaveri li ammassò nello spazio ricavato sotto la sua abitazione di Norwood Park, sobborgo di Chicago.
Il sottosuolo dostoevskiano
Il basement è il sottosuolo dostoevskiano sopra la superficie dell’esistenza borghese, dove poter condurre la vita parallela impossibile da mostrare. I suoi meandri sono la prigione dove chiudere le vittime e le storture impresentabili, per anni, addirittura per decenni. Un ventre, un luogo di morte tenuta in vita. È la storia di Elisabeth Fritzl, tenuta segregata dal padre per 24 anni, messa ripetutamente incinta dal genitore, tra figli e aborti, senza mai uscire dalla perfetta trappola organizzata da Josef. Un bunker di 35 metri quadri, suddiviso in alcune stanze prive di finestre, col soffitto a 170 centimetri da terra e accessibili attraverso una doppia porta blindata, pesante 300 chilogrammi, nascosta da uno scaffale appoggiato a una parete del suo laboratorio domestico di elettrotecnico. Negli stessi anni in cui la famiglia incestuosa di Fritzl si allargava, sempre in Austria Priklopil sequestrava e teneva segregata la bambina Natasha Kampusch, in un locale di 3×4 metri alto 1,6 metri e sigillato con porta blindata nascosta dietro un armadio ricavato sotto il garage della sua abitazione, che era stata dotata di un rifugio antiaereo negli anni della Guerra fredda.
I due casi austriaci hanno dimostrato come la finzione cinematografica non riesca a tenere il passo con la realtà, dando nuovo impulso a una serie di pellicole – anche molto recenti – che hanno indagato soprattutto gli aspetti psicologici delle vittime private di un’esistenza reale.
Un passaggio fra mondi
Il seminterrato ha anche il potere di favorire un passaggio tra la quotidianità e mondi che non dovrebbero essere esplorati: la ragazzina che ritrova la tavola Ouija tra le cianfrusaglie della cantina spalanca la comunicazione mediatica con il demone che la possederà: ed ecco Reagan e la sua battaglia con L’esorcista.
Un demone sembra anche quello che appare al bambino nella villa alto-borghese di Parasite, claustrofobica pellicola vincitrice della Palma d’oro 2019, dove lo scontro tra famiglia povera – che vive in un lurido scantinato – e famiglia ricca si gioca tra l’oscurità del basement che custodisce individui e segreti e l’algida e spaziosa luminosità del giardino dove si consuma la tragedia finale.
È nel basement che si combattono a volte le cruente battaglie tra il bene e il male, tra la vittima che non vuole morire e il carnefice che vuol scrivere nuove pagine di storia: Paul Sheldon, sequestrato dalla sua ammiratrice Annie Wilkes (un’insuperabile Katy Bates) pur confinato e ferito nel seminterrato riesce a convincere con mellifluo inganno la sua carceriera e aguzzina a permettergli di continuare a scrivere il capitolo decisivo di Misery non deve morire.
Ombre e finzioni
Il basement è dunque il luogo delle ombre e della finzione, che permettono di mostrare un’identità diversa da quella della superficie levigata dell’esistenza esteriore. Il sottosuolo di Dostoevskij è quello che Freud chiamerà subconscio, il lato dell'animo umano che non si costituisce di ragione, ma di desiderio, impulso, volontà. In uno scantinato urbano si incontrano i combattenti anonimi del Fight club, prodotti della fantasia del protagonista diviso a metà nella doppia veste di Edward Norton e Brad Pitt.
E in una cantina della Francia occupata si svolge il duello di finzioni e provocazioni tra dissimulati e veri ufficiali tedeschi in Bastardi senza gloria; il film di Quentin Tarantino si apre con la lunga scena del colonnello delle SS impersonato da Christoph Waltz che gioca al gatto col topo per arrivare a scoprire la famiglia ebrea ospitata nello spazio ricavato tra le assi del pavimento e le fondamenta di una fattoria. Nel male e nel bene è sempre il basement che cela e rivela l’altra faccia della realtà.
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