Un libro recente di Veronica Raimo si intitola Niente di vero. Invece l’ultimo libro di Tiziano Scarpa si intitola La verità e la biro. Dovremo dedurne che il secondo dice la verità, mentre il primo no? Meglio andarci piano. Non occorre essere Ponzio Pilato per capire che verità è un concetto pieno di insidie. Anche se partiamo dalla spiegazione più semplice, che dire la verità significa dire le cose come stanno, o raccontare come sono andate, ci infiliamo in un sacco di complicazioni.

Intanto, raccontare un fatto, anche un fatto qualsiasi, significa scegliere di menzionare alcune cose e altre no. Significa scegliere e un punto di vista. Significa assumere un tono di voce, o uno stile di scrittura. Ricordate Tommaso Landolfi, tra l’altro uno dei pochissimi scrittori italiani che abbia avuto inclinazione per il racconto fantastico? «Niente di quello che ho scritto è vero. Non perché non sia vero, ma perché lo ho scritto».

Può farci capire quanto cambiano le opinioni nel tempo notare che mentre oggi, come testimonia il dibattito che si è sviluppato su questo giornale, gli scrittori sembrano prevalentemente orientati a rifiutare la fiction e a rivendicare il lor diritto, anzi dovere, di raccontare cose vere, di far concorrenza alla storia o al giornalismo, qualche tempo fa invece era diffusa la convinzione contraria, che persino gli storici di professione non potevano far altro che deformare la realtà, imbrigliandola nelle gabbie del racconto, proprio come se fossero dei romanzieri, e che il realismo, in letteratura come al cinema, è solo un effetto di realtà, un effetto come altri.

Non bisogna poi perdere di vista un dato ineludibile: non si può provare la veridicità di nessun testo, di nessun racconto, restando all’interno di quel testo. Per decidere che qualcosa è vera e non inventata, ho sempre bisogno di un riscontro fuori dal testo.

E qui forse si può trovare la ragione di una certa mistica della presa di parola in prima persona, della vocazione testimoniale dello scrittore, che oggi circola molto: l’idea è che se mi metto in gioco, se faccio, in qualche modo, autobiografia, la credibilità di ciò che affermo sia maggiore. Come se non ci fossero molte famose autobiografie (a cominciare dalle Confessioni di Rousseau) a smentire questa fede un po’ ingenua. “Confessarsi è mentire”: Italo Svevo era più smaliziato.

Sospetto verso la finzione

Perfino uno dei punti fermi che sembrano emersi dalla discussione, e cioè che nella tradizione letteraria per lungo tempo la fiction ha potuto richiamarsi alla giustificazione che ne diede Aristotele nella Poetica, spiegando che la poesia, pur non dicendo cose vere, può essere più universale, più ricca di nutrimento, del racconto di cose accadute davvero, forse è meno sicura di quanto sia apparso, per esempio, a Walter Siti.

Non mi riferisco al fatto che le cose che raccontavano i grandi tragediografi greci, alla fine, non erano minimamente storie inventate da loro, ma attinte dalla mitologia o dalla storia (e quindi in qualche modo vere per il pubblico). Mi riferisco al fatto che la legittimazione aristotelica della finzione e della invenzione letteraria è rimasta a lungo estranea alla poetica occidentale, e si è fatta strada con fatica nella modernità. Non bisogna dimenticare che la dottrina cristiana, fin dalle origini e per lungo tempo, è stata diffidentissima nei confronti della fantasia e delle favole antiche.

Agostino deprecava di aver pianto per le vicende di Enea e Didone anziché, più proficuamente, sui propri peccati. Tertulliano condannava gli spettacoli perché l’autore della verità, Dio, non ama la finzione. Pascal metteva in guardia sui pericoli degli spettacoli teatrali.

Sembrano cose molto lontane, ma stanno dietro, anzi dentro, quello che si può considerare il capostipite del romanzo italiano. Quando si pensa a Manzoni lo si vede sempre come l’autore di un grande romanzo storico, in cui la verità della storia (i tumulti di Milano per il pane, la peste) va a braccetto con i personaggi inventati, Renzo, Lucia, Don Abbondio.

Meno spesso ci si chiede perché abbia scritto un unico romanzo, nonostante il grande successo con cui subito vennero accolti i Promessi Sposi. Il fatto è che appena ebbe completato il suo capolavoro, Manzoni cominciò ad arrovellarsi circa la legittimità della commistione di fatti veri e inventati che si chiama romanzo storico. Gli sembrava che togliesse credibilità alle parti storiche, senza trovare compensi dal lato delle cose immaginate.

Gli sembrava di fare come un pittore che facesse circolare assieme il ritratto di una persona e l’originale, ossia la persona in carne ed ossa. Il figlio di un banchiere che si voleva dare alla letteratura e che si rivolse a Manzoni pensando di ottenere incoraggiamento, ebbe in cambio una doccia fredda: macché romanzi, datti al commercio che almeno si fanno i dané.

Molti pensano ancora che lo scritto in cui Manzoni mise in carta la sua demolizione del romanzo storico (e in realtà di ogni opera di finzione), il Discorso sopra i componimenti misti di storia ed invenzione, sia una involuzione senile. Ma anche se lo pubblicò tardi, Manzoni lo aveva pensato e scritto appena chiuso il romanzo.

Dietro c’era quel pensiero cattolico che abbiamo ricordato (il suo consigliere spirituale, mentre Manzoni lavorava ai Promessi Sposi, lo ammonì subito di lasciar perdere quelle fantasie che non potevano che nuocergli), ma c’era soprattutto la difficoltà di comprendere la differenza tra finzione e falsità, proprio quella differenza che Aristotele aveva splendidamente intuito.

“Dell’inventato, che è quanto dire del falso” scrive Manzoni, come se non ci fosse una profonda diversità tra ciò che non corrisponde alla realtà perché viene travisato o distorto e ciò che è frutto della immaginazione dell’artista. Una diversità che forse sfugge ancora a molti teorizzatori della superiorità della “storia vera” sul “racconto inventato” nella letteratura di oggi.

Fame di realtà

Certo, dietro alla rinuncia al racconto di fantasia e alla preferenza accordata alle storie vere nella letteratura contemporanea ci sono anche altre ragioni, molto più vicine nel tempo. Quando la cosa è cominciata era in parte una reazione agli sperimentalismi della Neoavanguardia, alla riduzione della letteratura a stile e linguaggio, ma era soprattutto una risposta al disimpegno post-moderno, considerato come quella cultura in cui stava andando perduta proprio la distinzione tra reale e immaginato, tra fatti e spettacolo, tra vero e finzione.

Slavoj Žižek parlava di “Epidemia dell’immaginario” per stigmatizzare un’epoca in cui è diventato impossibile distinguere ciò che davvero accadeva dalla sua rappresentazione mediatica. Baudrillard denunciava la sparizione del reale e la sua spettacolarizzazione, che impedisce ogni orientamento effettivo nel mondo. David Shields opponeva a tutto questo, in un libro tradotto in italiano nel 2011, la Fame di realtà, la necessità di trovare un ancoraggio alla narrazione in quello che è accaduto davvero.

Oggi che il post-moderno ci appare lontanissimo, in quella che è stata chiamata letteratura spuria, una letteratura che si fa indagine, una letteratura che diventa presa di posizione contro quanto di sbagliato si svolge sotto i nostri occhi, agisce, oltre alla volontà di denuncia, una sorta di sfiducia nei confronti della capacità della letteratura di invenzione, di incidere davvero, di farsi ascoltare.

Ma dietro c’è ancora la convinzione che la finzione sia agli antipodi della verità, non sia altro che falsificazione, mentre il contrario del vero è il falso, non l’immaginato. Forse basterebbe pensare che molte di queste nuove forme narrative sono, a loro volta, delle mescolanze di vero e inventato, come attestano definizioni come docu-fiction o auto-fiction.

Forse basterebbe riflettere sul fatto che, come ogni discorso sul reale deve organizzarsi in strutture narrative e stilistiche, e finisce così per riempirsi di finzione, allo stesso modo la finzione può diventare piena di realtà, può parlarci delle cose che ci stanno più cuore, e non solo nel nostro privato.

Forse aveva ragione Leonardo Sciascia, che faceva docu-fiction prima che il termine cominciasse a circolare, e che aveva letto Manzoni: non si tratta di tradire la realtà o di accodarsi ad essa, ma fare concorrenza alla realtà con la letteratura.

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