Dall’irritazione non nasce mai nulla di buono, tanto più nell’ambito del pensiero, come dimostra anche la recensione di Paolo D’Angelo al mio ultimo saggio (A proposito del senso della vita, Garzanti 2021) uscita qualche giorno fa su questo giornale. Tralascio il sarcasmo di cui è costellato l’articolo e mi concentro sulle tre questioni di fondo che a mio avviso emergono dalle argomentazioni condotte contro di me: 1) la mia religiosità; 2) il legame tra senso della vita ed esistenza di Dio; 3) la questione di Dio nel pensiero contemporaneo.

Un’altra tradizione

Sul primo aspetto l’autore scrive: “Oso dire che la religiosità estenuata, pettinata, rispettosa e corretta di Mancuso un poco mi irrita”. L’irritazione del mio recensore verso la mia religiosità è dovuta al fatto che essa non procede dall’angoscia e dal peccato, come nel caso di Kierkegaard e in genere della tradizione paolino-agostiniana maggioritaria nel cristianesimo ufficiale, ma dal senso di armonia e di fiducia verso la vita. Il che, secondo il mio recensore, estenua la vera religione togliendo ogni grandezza alla fede. In realtà, si tratta di una religiosità molto antica che ha le sue radici nella tradizione sapienziale biblica, in molti detti evangelici, in Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Scoto Eriugena, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam e, nella nostra epoca, Pavel Florenskij, Dietrich Bonhoeffer, Albert Schweitzer, Pierre Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Carlo Maria Martini, Hans Küng. Si tratta di autori molto noti (tra loro vi sono anche dei martiri), che certamente il mio recensore conosce bene e quindi non mi spiego come non abbia saputo inquadrare la mia religiosità. Ancora meno mi spiego come abbia potuto, lui così impeccabile nel riportare le battute di un noto show televisivo, citare in modo scorretto la celebre pagina della Critica della ragion pura, B 805, omettendo la terza domanda kantiana che chiede “Che cosa mi è lecito sperare?” e che fonda la ricerca nell’ambito della religione.

Nati per la sinergia

Quanto al secondo punto, il fatto che la questione del senso della vita non sia trattata da me per introdurre surrettiziamente la fede in Dio è ampiamente dimostrato già a partire dalla citazione di Einstein posta all’inizio del mio saggio ben sapendo che il grande fisico non credeva nel Dio della tradizione biblica ma in quell’ordine cosmico impersonale che Spinoza denominava “Deus sive natura”. Il punto semmai è un altro, cioè il fatto che vi è un modo di proporre la fede (quello che piace al mio recensore) che ha bisogno di distruggere il senso naturale della vita per proporre al suo posto un senso sovrannaturale, secondo l’idea della vita come non-senso che scava uno spaventoso buco nel cuore dell’uomo e l’idea di Dio come “tappabuchi” (per riprendere la celebre espressione bonhoefferiana). Rispetto a questa impostazione io mi muovo all’opposto, perché a mio avviso è la fioritura della vita da cui procede la libertà a dare senso alla vita, mostrando, come scrivo riprendendo Marco Aurelio, che “siamo nati per la sinergia”, cioè per la relazione e l’armonia verso cui indirizzare ed educare la libertà, a prescindere da ogni fondazione biblica e dogmatica di tale impostazione e secondo una teologia che definisco universale, ecumenica, non dogmatica e che assegna alla creazione il primato.

La fatica di credere in Dio

Rimane la terza questione, quella per la quale il mio recensore mi bacchetta maggiormente accusandomi di “camuffare l’evoluzione della natura con una logica trascendente”. È da anni che mi occupo di filosofia della natura e di dialogo con la scienza ponendomi agli antipodi rispetto al creazionismo e all’idea della natura come disegno intelligente. Ho indagato a lungo le imbarazzanti spiegazioni teologiche sulle malattie genetiche cercando di spazzare via ogni apologetica malsana, quindi la “fisico-teologia” che mi viene attribuita (ovvero “il tentativo di dedurre l’esistenza di un essere supremo dal meraviglioso ordine della natura”) è esattamente la posizione che combatto. A quanto pare il mio recensore non conosce i miei libri precedenti, pazienza, anche se la deontologia professionale richiederebbe di prepararsi un po’ meglio prima di affrontare un argomento e di emettere certi giudizi. Venendo più direttamente al merito della questione, io da sempre la penso come Karl Jaspers: “Quanto più l’uomo è autenticamente libero, tanto più Dio gli si fa certo” (Introduzione alla filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 54). È il darsi della libertà capace di giustizia che si mostra in un essere determinato e spesso ingiusto qual è l’essere umano a costituire per me il punto di appoggio per il discorso su Dio. Nulla a che fare, quindi, con la vecchia impostazione della prova fisico-teologica. Io mi baso piuttosto sulla via intrapresa da Kant nel fondare la sua filosofia della religione e ripresa da Jaspers e da Jonas, quella per la quale a costituire la legittimità del discorso sulla trascendenza è la presenza della libertà che si manifesta come legge morale. Questa via non toglie drammaticità alla fede, come vorrebbe il mio recensore, ma la rende piuttosto un’alleata della libertà, perché ci si rende conto, percorrendola, che la fatica di credere in Dio non è diversa dalla fatica di essere uomo.   

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