Il cielo sopra San Francisco aveva il colore dell’inferno. Alle otto del mattino del 9 settembre sopra la California e l’Oregon non era la luce a diffondersi, ma l’oscurità: nell’aria un innaturale silenzio – dopo un po’ ci si accorgeva che gli uccelli avevano smesso di volare e lanciare i loro richiami – dagli alberi e dai tetti delle case colava la cenere, come pioggia nera.

Sei dei dieci incendi più grandi e distruttivi della storia della California stavano bruciando in quel momento. È il quarto anno che la stagione degli incendi arriva in anticipo e dura più a lungo, preceduta da ondate anomale di calore particolarmente intense: nelle settimane precedenti la temperatura a San Francisco è arrivata a 49,4 gradi Celsius. Sono stati impiegati 14mila pompieri per domarli, 500mila persone sono state sfollate.

(AP Photo/Noah Berger)

West Coast in fiamme

La West Coast è in fiamme, il fumo di tutti gli incendi che stanno devastando la costa è visibile dallo spazio e oscura i cieli trasformandoli in un surreale e terrorizzante paesaggio da film di fantascienza.

Letteralmente: qualcuno ha montato le riprese di un drone sopra San Francisco con le musiche di Blade Runner 2049. Ne è venuto fuori un video straniante, immediatamente virale, perché dà forma a quella sensazione diffusa di vivere in una distopia realizzata. La fine del mondo non appartiene al futuro e alla fantascienza: è adesso.

Allora perché siamo così calmi?

L’apocalisse senza Instagram

Innanzitutto perché non la vediamo. In molti hanno notato uno strano fenomeno (ne scrive ad esempio il tecnologo Ian Bogost sull’Atlantic): se proviamo a fotografare i terrorizzanti cieli rossi californiani con le fotocamere dei nostri smartphone ne ricaviamo immagini molto meno spaventose e surreali della realtà.

I cieli appaiono meno rossi, quasi grigi, desaturati, come se tutti quei megapixel non riuscissero a restituire la drammatica assurdità del fenomeno.

Non è un complotto, è solo il modo in cui funzionano le fotocamere digitali: ricostruendo attraverso gli algoritmi il colore più “logico” per gli oggetti, quando sono messe di fronte a una realtà illogica è inevitabile che sbrocchino. Se la rivoluzione non poteva essere trasmessa in televisione, l’apocalisse non può essere instagrammata.

Capitalismo e fine del mondo

I nostri smartphone non sono progettati per l’apocalisse.

Del resto che te ne fai dell’ultimo modello di iPhone se il tuo mondo sta finendo? Per guardare, capire e interpretare il mondo ci siamo affidati mani e piedi a una tecnologia che a volte non ci permette di vedere e reagire al disastro in arrivo.

Meglio fare finta di nulla, allora, e provare intanto a vendere quanti più prodotti sia possibile prima del collasso causato da quello stesso stile di vita (insomma, il capitalismo).

In cerca di un rifugio

Non era pronto all’apocalisse neanche Mark O’Connell: il suo nuovo libro Notes from an Apocalypse: A Personal Journey to the End of the World and Back è uscito proprio nel pieno della pandemia di Covid-19.

E sì che il tema era proprio quello: la paura della fine del mondo e il racconto di come alcune persone si stanno realmente preparando all’eventualità. O’Connell visita depositi militari nelle praterie del Dakota colonizzati da una setta millenarista, o le regioni della Nuova Zelanda dove il miliardario tech Peter Thiel, il cofondatore di PayPal, intende rifugiarsi quando arriverà l’apocalisse.

Ma questi sono personaggi tra il bizzarro e lo psicotico, che scambiano la fine del loro mondo come la fine di tutto, più interessati a far sopravvivere i loro privilegi che ammettere che sono quegli stessi privilegi a minacciarli (l’1 per cento più ricco produce il doppio della CO2 del 50 per cento più povero della popolazione).

(AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

Ciechi davanti alla realtà

Il punto è che non sono solo i nostri smartphone a “non vedere” il surriscaldamento climatico. Sono prima di tutto i nostri cervelli a non essere in grado di fare i conti con fenomeni così complessi, resi ciechi da quella serie di bias cognitivi di cui ha scritto anche Bruno Arpaia su queste pagine.

È come se, nel momento in cui veramente proviamo a pensare il cambiamento climatico, il nostro cervello si sintonizzasse su un canale morto, si riempisse del brusio del rumore bianco.

Il tempo e l'acqua

Lo scrittore islandese Andri Snær Magnason lo definisce “un ronzio”: quando gli parlano del cambiamento climatico sente «tutte queste parole disporsi a formare un buco nero, che non riesco a percepire perché la massa inghiotte ogni significato».

Ne scrive in un libro molto bello appena uscito da Iperborea, Il tempo e l’acqua, difficile da definire: è un libro di scienza ma anche un libro spirituale, quasi sapienziale, un memoir familiare e nature writing, un libro di critica letteraria e di storia delle religioni, di inchiesta e di mistica.

Ed è difficile da definire non solo perché Magnason è un tipo eclettico e curioso, ma anche perché il tema vero del libro è proprio questo: abbiamo bisogno di forme nuove, di modi nuovi di raccontare quello che sta succedendo, altrimenti continueremo a non vederlo.

Siamo come gli abitanti del mondo a due dimensioni di Flatlandia quando vengono visitati dalla sfera. Ecco, dice Magnason, come facciamo a far entrare la sfera nelle nostre teste e nei nostri cuori piatti di quadrati a due dimensioni?

«Per parlare della Terra dobbiamo adoperare le parole delle scienze, delle emozioni, della statistica o della fede? Fino a che punto possiamo attingere al nostro privato ed essere sentimentali?»

Le ultime renne

Le ultime renne islandesi vivevano sugli altipiani interni a nord del Vatnajökull, nella regione del Kringilsárrani.

Nel 2002 fu deciso di allagare ampie zone di quel territorio per costruire una diga che fornisse energia a una fabbrica di alluminio dell’Alcoa. La decisione destò molte polemiche in Islanda, trasformando la regione in uno spazio di contesa politica – e in questi termini se ne parlava: impatto ambientale, costi e ricavi, alterazione dell’ecosistema.

Quando Magnason la visita, però, la trova, prima di tutto, bella: perché nessuno lo dice? Perché non può usare le parole del poeta Helgi Valtýsson, che visitò gli stessi territori all’inizio del Novecento, e che parla di «vasti spazi silenti di dèi» e fa ricorso liberamente al registro del sublime, della bellezza trascendente che attrae e schiaccia l’umano e la sua piccolezza?

«Perché la mia generazione, che ha già prodotto il triplo dell’energia necessaria al paese, che si è saziata di ogni bendidio e ha i magazzini pieni, non può esprimersi liberamente come Helgi, invece di farsi imbavagliare da un astratto discorso economico e razionale?»

Qui e ora

Torniamo alla domanda di prima: perché siamo così tranquilli? Come possiamo restare calmi e indifferenti mentre il mondo sta finendo?

«Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti» cantava Conte (Paolo, non Giuseppe. Di questi tempi meglio specificare): se c’è una cosa che ci insegnano fin da piccoli è che un adulto dev’essere serio, calmo, distaccato. Ancora di più se è un maschio, se vuole fare l’uomo.

Che l’importante è il qui e l’ora, quello che puoi vedere e controllare. Il resto sono fantasie, effusioni sentimentali.

Siamo schiacciati da un’enorme, fortissima pressione sociale a mantenere la calma, andare avanti come se nulla stesse succedendo, se vuoi essere preso sul serio. Il mondo va a puttane ma non dimenticarti le buone maniere.

La grande cecità

Questa pressione sociale ha un chiaro corrispettivo in letteratura. Lo scrittore indiano Amitav Ghosh la chiama la «grande cecità»: perché, se il surriscaldamento globale è la cosa più importante e pressante che stiamo vivendo, di fatto non è trattata nei romanzi contemporanei?

Perché il romanzo moderno e borghese, così come si è sviluppato dalla fine del Settecento a oggi, è un romanzo realista, che racconta l’ordinarietà della vita, di ogni vita, non più solo quella di eroi e cavalieri: racconta il quotidiano, ciò che è vicino, conoscibile, visibile.

Il perturbante, l’inaudito viene scacciato sullo sfondo, ai margini del canone, nei sottogeneri della letteratura fantastica.

(AP Photo/Noah Berger)

Parole nuove

Come si scappa da questa trappola? Con due movimenti, secondo Magnason. Il primo: non aver paura del registro del sublime.

Non limitarsi cioè al linguaggio della scienza degli esperti (che dice la verità ma è difficile da “tradurre” per il cuore umano: un cortocircuito di cui ha scritto acutamente Raffaele Alberto Ventura in Radical Choc, Einaudi), ma fare ricorso alla lingua dei sentimenti, all’immaginazione poetica, alla trasfigurazione mistica, senza temere di apparire “poco seri”.

Abbiamo bisogno di parole nuove per sentimenti nuovi, paure sconosciute, bellezze mai viste prima: ogni scrittore che scrive oggi dovrebbe tenerlo presente, ogni lettore pretenderlo. Il secondo: prenderla sul personale. È qualcosa che ci riguarda direttamente, in prima persona.

(AP Photo/Noah Berger)

Perché non agiamo?

Magnason propone questo esperimento: quanto è ampio il tempo delle nostre responsabilità? Con quanto passato e quanto futuro io sono in rapporto? Ad esempio: mia figlia è nata l’anno scorso e conosce sua nonna, mia madre, che è nata negli anni Trenta del Novecento.

Quando mia figlia avrà ottantuno anni, nel 2100, conoscerà sua nipote che vivrà, diciamo, fino al 2180. Questo vuol dire che c’è un arco temporale di 250 anni, un quarto di millennio, due secoli e mezzo in cui le nostre decisioni toccano la vita di persone che conosciamo, a cui vogliamo bene e per il cui bene faremmo tutto quello possiamo: allora perché non agiamo?

È un piccolo esperimento mentale, ma sconvolgente per la prospettiva che apre. La storia non è un processo astratto, impersonale.

Il tempo esiste e lo possiamo condizionare ora per i prossimi secoli. Perché, come scrive il poeta Steinn Steinarr, «Il tempo è come un quadro/dipinto dall’acqua/e da me per metà»

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