«“La crisi” significa: “il governo cresce”». Lo scrive il Comitato Invisibile in uno dei suoi manifesti: «È diventata l’ultima ratio di ciò che impera: ogni cosa si misura alla luce del suo crollo imminente». Sarà per questo motivo che anche questo governo Draghi sembra affannarsi tanto a fingere una fragilità che, lo sanno tutti, non ha. Ma bisogna fingere che ce l’abbia. Questo innanzitutto per una necessità scenica: in palcoscenico qualcosa deve succedere.

«Più azione», chiedeva l’attore Moissi a Luigi Pirandello dopo la lettura di Non si sa come – «la poesia è indiscussa, ma gioverebbe più azione!». La felicità annoia, insegna Tolstoj – «Tutte le famiglie felici si assomigliano, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Solo l’infelicità è narrativa, solo l’infelicità è specifica. Ogni racconto accattivante che si rispetti ha bisogno di ostacoli da superare: così che i risultati ottenuti non siano gli esiti di un ingranaggio ma traguardi raggiunti. È così che si conquista il pubblico: vincendo. Oppure, al contrario, perdendo con onore. Mai solo funzionando.

Come un Truman show

Ho provato spesso, in questi mesi, una strana sensazione. Che si polemizzasse sull’obbligo vaccinale o sul ddl Zan, sul green pass o sull’Afghanistan, l’effetto era quello straniante, simile a un dejà-vu, che si ha nei confronti di certi sogni: il dubbio sulla realtà della realtà. Qualcosa di simile a quello che Jim Carrey prova in certi momenti di The Truman Show: accorgersi di un copione che stride per quanto è ben collaudato. Troppo vero per essere vero. Così che tanto il dibattersi di Matteo Salvini quanto le recenti dichiarazioni di Goffredo Bettini altro non sono che illusionismo, falso movimento: un gioco delle parti messo in scena per coprire quello che è in realtà il governo più solido della storia repubblicana.

Passano i mesi, e il governo sembra sempre di più quel passaggio di Mulholland Drive, al Club Silencio: le due protagoniste ascoltano commosse l’esibizione di una cantante; poi la cantante sviene e la musica va avanti. Ci accorgiamo, turbati, che era tutto in playback. «Non c’è nessuna orchestra» – spiega l’inquietante presentatore – «è tutto registrato».

Teatro, appunto. Un gioco delle parti dove ognuna recita il suo ruolo, più o meno volentieri, ma con l’attenzione di attori che sanno di non potersi permettere bizze e capricci. Basta vedere Matteo Salvini: Salvini come Cordelia in Re Lear, Karl Moor nei Masnadieri, Kendall di Succession: ribelle al padre-re, ma per troppo amore del suo popolo, diviso tra l’amore per il genitore e quello per la libertà. Interpreta l’avversario, ma con tormento. Si contrappone, ma con inquietudine. Sta nel governo, però malvolentieri. Vorrebbe stare fuori dal palazzo, a combattere. Ma non può: «Lo chiedono gli imprenditori».

E allora dagli con le polemiche, le dichiarazioni ostili, i brontolii. Sa già che perderà, ma appunto: l’importante è sembrare uno che perda combattendo. Ma è tutto così finto che si fa fatica a crederci: come un film in cui l’eroe passa tra pallottole che volano e palazzi che crollano ma non sei mai davvero sfiorato dal timore che possa morire. «È tutto registrato».

Di vero sembra esserci solo la nostalgia con cui Salvini guarda Meloni. È lo stesso sentimento con cui il re Enrico, recuperato alla virtù e alla corona reale, guarda Falstaff: l’invidia per i verdi pascoli del cazzeggio una volta percorsi insieme. Il bel tempo delle folli promesse e delle affermazioni senza logica.

E infatti, dopo ogni dichiarazione antigovernativa di Salvini, il tutto si risolve sempre nello stesso modo: domanda a Draghi in conferenza stampa – risposta a effetto di Draghi. È il massimo momento di massima soddisfazione del commentatore politico in questi tempi magri. Il giornalista lo sa, e aspetta questo momento: una battuta attesa, che già pregustava. Funziona lo stesso anche con Enrico Letta, costretto a correre continuamente da una proposta a costo zero all’altra – voto ai sedicenni, imposta di successione – per poi vedersi ogni volta liquidato dal grande padre.

Il “cattivo perfetto”

Una volta ho assistito alla messinscena di Sior Todero Brontolon di Goldoni. Nel testo c’è una battuta ricorrente, pronunciata da un nonno-padrone che detiene il controllo della cassa. A Venezia, già dopo la terza volta che la battuta veniva pronunciata, il pubblico aspettava per ripeterla in coro, come a un concerto rock: «Il padrone sono io»!

L’altro grosso personaggio in commedia è chiaramente Matteo Renzi. Che sia uno spregiudicato abusatore di teatralità, lo dimostra la sua capacità di occupare la scena molto più di quanto i suoi sondaggi suggerirebbero. Ma una cosa è l’efficacia narrativa, un’altra la popolarità: per Matteo Renzi le due caratteristiche funzionano in modo inversamente proporzionale. Più è impopolare, più è efficace. Non deve stupire: il teatro ha ragioni che il voto non conosce.

Renzi è il “cattivo perfetto”, quello così odioso da essere paradossalmente simpatico, quello che alla malefatta aggiunge il sorrisetto per testimoniare che gli è pure piaciuto. Lo scoop (fatto proprio da questo giornale) sulle sue amicizie arabe gli ha concesso nuove sfumature narrative: la propensione all’intrigo, la dialettica da venditore, l’esotismo internazionale. L’imbolsimento fisico, l’inclinazione alla querela, l’atteggiamento strafottente, l’umorismo sempre un po’ cringe lo rendono un personaggio impossibile da amare, eppure insostituibile.

Riesce sempre a dire qualcosa di clamorosamente sbagliato. Sembra a volte che lo faccia apposta, come se avesse alle spalle un drammaturgo fin troppo deciso a farne l’Antipatico, però troppo maldestro per renderlo plausibile: e quindi calca la mano, sottolinea, bidimensionalizza, eccede. La frase: «La gente deve tornare a soffrire» ne è un formidabile esempio: difficile immaginare un’uscita più sbagliata – nella formulazione, nei modi, finanche nella postura. Troppo sbagliata per essere sincera. Come del resto la più generale battaglia contro il reddito di cittadinanza. Una battaglia che accomuna i due Mattei, e che ci rivela la loro natura: sono gemelli. È questo uno dei pochi, magri colpi di scena che questa povera drammaturgia politica ci fa intravedere: i due Mattei, che sembravano così lontani, in realtà sono fratelli. Qualcuno, tra i più furbi, lo sospettava già. Lo svelamento è vicino.

Il padre al centro

Il teatro ha sempre fatto saggio uso delle figure gemellari. Il fondamento di ogni commedia con i gemelli è che i due non devono mai comparire in scena insieme. È naturale: se i gemelli si mostrassero come tali, tutti gli equivoci generati dalla loro doppiezza cadrebbero, l’intrigo si scioglierebbe e la commedia finirebbe sùbito. E infatti, non a caso, nella più unica che rara occasione di compresenza tra i leader dei diversi partiti – il 24 agosto, al Meeting di Rimini – con Salvini presente, Italia viva era rappresentata da Ettore Rosato. La regola teatrale è ferrea: i doppi non devono mostrarsi prima del finale. E all’elezione del presidente della Repubblica mancano pochi mesi.

Teatro, si diceva. Nei personaggi, ma anche nelle forme. Giuseppe Conte, ad esempio: è un a parte. Le sue battute sono sempre in proscenio, dettate da un bisogno di affermazione e quindi rivolte più agli spettatori che ai personaggi in scena. Facendogli credere di amarlo per la sua persona e non per la sua funzione, il popolo l’ha sedotto e abbandonato. Veste il costume più inappropriato della messinscena: il politico più composto alla guida del partito più scomposto, il più colto alla guida del più incolto; il più affascinato dal potere alla guida del partito che più dichiara di disprezzarlo. È un attore sempre fuori parte, frutto di un casting impazzito. Come il marchese di Ripafratta della Locandiera, vive di una gloria passata, ma non dispone di alcun patrimonio. Come un arlecchino inseguitore di troppi elettorati diversi, corre da un punto all’altro del palco pronunciando parole che, come gli elettroni nella fisica quantistica, siano contemporaneamente in diversi punti. Dai Talebani distensivi ai 200mila bambini poveri di Milano, l’effetto è amletico, apodittico, dispercettivo, l’equivalente retorico di una barzelletta che non viene capita. La perentoria, comicissima dichiarazione sui vaccini – «Non sono ammissibili pulsioni anti-scientifiche» – lo rappresenta perfettamente: il desiderio di parlare ai vaccinati e contemporaneamente anche ai No-vax produce un esempio mirabile di lingua ambigua e barocca, in cui risuona tutta la storia italiana, fatta di non detti, giri di parole, ambivalenze; una lingua per santi, cardinali e, appunto, avvocati. Una lingua magnifica, in cui dire tutto e il contrario di tutto, fare un po’ governo ma anche un po’ di opposizione, ché tanto poi Draghi, il grande padre saggio, sintesi hegeliana tra gli opposti, sublimerà tutto, liquidando sempre ogni questione, vera o finta che sia, con una frase che, qualsiasi siano le parole usate, suona sempre come un «su, fate i bravi». Che poi, in fondo, è l’aspetto più inquietante e ambiguo – secondo alcuni anche intimamente autoritario – di questo governo: ogni dialettica, vera o falsa che sia, viene sciolta da una considerazione apodittica e un paterno sorriso. Ogni argomentazione si sgretola alla luce del governo, riducendosi a una farsetta. Mi ha particolarmente turbato un tweet di Carlo Calenda qualche giorno fa: «Come si fa a non voler bene a Mario Draghi. Essenzialmente ha detto ai partiti giocate pure, se fate meno casino è meglio, ma comunque i grandi continuano a lavorare».

In sintesi, anche nel governo dei migliori, torna più forte che mai quella perenne, oscena fascinazione verso l’uomo solo al comando: il maschio alfa, il capofamiglia benevolo ma severo che porta il pane a casa e prende le decisioni per il bene di tutti. Il governo Draghi ha scoperchiato per l’ennesima volta – pur schermato dalla copertura freudiana dell’alta professionalità – l’anima paternalista del paese. Il re al centro, e intorno il teatro. Nessun coro, nessuna assemblea: solo commedia di figli e figliastri che si arrabattano per ritagliarsi uno spazio di visibilità, un buon matrimonio, una dote sostanziosa. Tutti a immaginare una successione che nessuno desidera realmente. Giacché il re, come lo stato, è sempre sinonimo di una sola cosa: il padre. E il padre è sempre incontestabile: non perché non sia permesso contraddirlo, ma perché il suo potere dismette dalla responsabilità di immaginare un ordine diverso dal suo. La sua autorità si può aggirare, ma mai realmente contestare. È qualcosa di genetico, che riguarda le ragioni profonde per cui l’Italia è sempre stata incapace sia di rivoluzione sia di tragedia: la sua catarsi è sempre orizzontale, non guarda mai oltre l’ordine costituito. Ha provato a dirlo Umberto Saba: «Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Ed è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione.

Gli italiani vogliono darsi al padre, e avere da lui in cambio il permesso di uccidere gli altri fratelli».

 

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