Guido Tonelli, fisico del Cern che ha lavorato alla scoperta del bosone di Higgs, ci guida alla lettura di Maniac, nei labirinti della scienza moderna disegnati da John von Neumann
Quando mi hanno chiesto se ero interessato a discutere con Benjamin Labatut in occasione della consegna del prestigioso premio Malaparte, ho accettato subito. Mi intrigava dialogare con il giovane autore di Quando abbiamo smesso di capire il mondo. Ero entrato in contatto con la sua scrittura da giurato del Premio Galilei 2022.
Labatut vinse la competizione e il suo libro fu giudicato la migliore opera di divulgazione scientifica dell’anno. Quando ci siamo incontrati, venerdì scorso a Capri, era appena arrivato da Santiago del Cile ma subito, già a cena, si era mostrato molto curioso di poter discutere con uno scienziato del Cern; era solo lievemente intimorito per la possibilità che trovassi nei suoi lavori qualcosa di sbagliato o semplicemente di poco accurato.
L’ho rassicurato subito che era tutto a posto. Che anzi, mi meravigliava la sua padronanza nel trattare concetti molto complicati, come quelli che hanno a che fare con le basi della meccanica quantistica o della logica formale. Io piuttosto ero curioso di sapere da dove nasceva questo suo interesse per la scienza e di capire cosa esattamente lo affascinava nelle figure di scienziati come Heisenberg o Schrödinger.
Corteccia pre-frontale
La sua risposta è stata illuminante. Labatut è interessato alla follia, considera il mondo in cui viviamo intriso di una sottile forma di pazzia che pervade anche le menti più equilibrate. Per Labatut la crescita esponenziale dell’evoluzione tecnologica non produce un mondo più ordinato e comprensibile, al contrario tutto sembra sfuggire al nostro controllo. Il giovane scrittore pensa che questa follia sia nascosta nella parte più razionale del nostro cervello.
Che il vero pericolo dello squilibrio non si nasconda nelle zone che sovrintendono alle emozioni e alla paura, laddove ruggisce quell’abisso di pulsioni che talvolta gli umani non riescono a controllare. Al contrario, per Labatut il vero rischio risiede nella corteccia pre-frontale, la parte nobile del cervello, quella che presiede alla nostra autocoscienza. La sede del pensiero astratto, quella che produce le speculazioni più raffinate. Ecco perché matematici e fisici sono le personalità che più lo interessano. Nelle loro biografie ricerca la follia che accompagna il pensiero razionale portato ai suoi limiti estremi.
Ed ecco che si capisce perché, prima del libro che l’ha reso famoso, ha pubblicato La pietra della follia e Maniac è il suo ultimo lavoro, uscito in questi giorni, ancora per Adelphi. Il titolo prende spunto dal nome che John von Neumann aveva dato alla sua creatura, un calcolatore universale che avrebbe dovuto «afferrare la scienza alla gola scatenando un potere di calcolo illimitato». L’indecifrabilità del mondo che Labatut paventa comporta una visione agghiacciante del reale che nasce dalla perdita «di quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola».
Profondo pessimismo
Il futuro dell’umanità appare a Labatut imprevedibile e sfrangiato, totalmente dipendente da minime variazioni che potrebbero produrre catastrofi immani. Quello che rende affascinante il lavoro di Labatut è che tutto questo è raccontato attraverso le biografie di grandi scienziati, nelle quali egli intreccia sapientemente dati storici reali e ampiamente documentati, con episodi di pura finzione, molto incisivi perché scritti con grande maestria. Lo stile della sua scrittura è potente e si richiama alle novità introdotte nella letteratura latino-americana dell’ultima decade del novecento.
Labatut ha dichiarato in più occasioni di non amare il realismo magico che ha fatto la fortuna di tanti autori del suo continente, a partire da Garcia Márquez. Rispetta il grande scrittore colombiano ma preferisce richiamarsi a Roberto Bolaño, giovane autore cileno scomparso prematuramente. Come già in Bolaño anche in Labatut i narratori e i punti di vista si moltiplicano; il «filo della storia» si ricostruisce attraverso le testimonianze, talvolta contraddittorie, dei personaggi che hanno incrociato, magari per un attimo, la vita dei grandi scienziati che il libro racconta.
Non cercate in Labatut la chiave per capire gli avanzamenti più recenti della conoscenza. La sua è una visione distopica della scienza e del nostro futuro che, nel suo profondo pessimismo, ha il pregio di metterci in guardia contro i pericoli che una fede cieca e illimitata nel progresso scientifico può comportare.
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